Revocatoria fallimentare, disciplina delle rimesse bancarie

Pubblicato il 12 febbraio 2019

La Cassazione si è di recente pronunciata con riferimento ad alcune questioni inerenti alla disciplina della revocatoria delle rimesse bancarie, soffermandosi sul problema della persistente rilevanza, nella vigenza della nuova normativa introdotta col convertito Decreto-legge n. 35/2005, della tradizionale distinzione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie della provvista.

Ha, in particolare, precisato che, ai fini della revocabilità, per come disciplinata dall'art. 67, comma 3, lett. b) Legge Fallimentare (a seguito dell'intervento del DL citato), è irrilevante che la rimessa posta in essere dal correntista fallito sia da qualificare ripistinatoria o solutoria e, ossia, che afferisca a conto passivo o a conto scoperto. Quel che rileva, infatti, è unicamente la consistenza e durevolezza degli effetti estintivi dell'esposizione debitoria.

Così, in base alla disciplina attuale, è possibile che la rimessa diretta a ripianare l'esposizione debitoria del conto passivo sia revocabile, ed è possibile, all'opposto, che la rimessa attuata su conto scoperto non lo sia, non comportando essa un rientro durevole, perché neutralizzata da riutilizzi dell'importo da parte del correntista stesso.

Nel rispondere alle varie questioni lei sottoposte, la Suprema corte – sentenza n. 277 del 9 gennaio 2019 – ha formulato alcuni principi di diritto a cui dovrà attenersi la corte di merito a cui ha rinviato la particolare causa esaminata.

Natura solutoria o ripristinatoria: irrilevante

In materia di azione revocatoria fallimentare – spiegano gli Ermellini - l'articolo 67, comma 2 lett. b) Legge fallimentare prescinde dalla natura solutoria o ripristinatoria della rimessa e quindi dal fatto che la stessa afferisca a un conto scoperto o solo passivo, ma impone al giudice del merito di accertare la revocabilità della rimessa stessa avendo riguardo, oltre che alla consistenza, alla durevolezza di essa.

Accertamento, questo, che non può essere sostituto dalla semplice quantificazione della differenza tra l'ammontare massimo raggiunto dalle pretese della banca nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza e l'ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperto il concorso, come previsto dal successivo articolo 70, comma 3, in quanto quest'ultima disposizione indica solo il limite massimo dell'importo che il convenuto in revocatoria può essere tenuto a restituire.

Rimesse effettuate dal terzo

Altro punto chiarito dalla Prima sezione civile riguarda, sempre nell'ambito dell'azione revocatoria fallimentare, le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell'imprenditore, poi fallito.

Dette rimesse non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l'imprenditore prima della dichiarazione di fallimento, né che abbia così adempiuto un'obbligazione relativa ad un debito proprio.

Rimesse effettuate dall'imprenditore

Per finire, sulle rimesse in conto corrente bancario effettuate da un imprenditore poi dichiarato fallito, nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, ha precisato che “il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l'onere di dimostrare l'esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti.

E quest'ultima “non può essere desunta dall'ordine delle operazioni risultante dall'estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile”, posto che tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto, di modo che, in mancanza di tale prova, devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti.

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