In tema di licenziamento disciplinare nella scelta della tutela applicabile contemplata dai commi 4 e 5, art. 18, Legge 20 maggio 1970, n. 300, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con la sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Al riguardo l’operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alla violazione contestata, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità stabilito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
Sostanzialmente, secondo il nuovo orientamento contenuto nella sentenza 11 aprile 2022, n. 11665, della Corte di Cassazione, il giudice può interpretare le previsioni generali ed elastiche del CCNL riconducendo la fattispecie concreta alle violazioni aventi sanzioni conservative e caratterizzate dall’assenza di specificità.
Con la sentenza 11 aprile 2022, n. 11665, la Suprema Corte di Cassazione si pronuncia sull’applicazione delle tutele previste dello Statuto dei Lavoratori in tema di licenziamento disciplinare illegittimo.
Il caso affrontato riguardava il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore dipendente, avente mansioni di comandante delle guardie giurate di una società di vigilanza, assunto nel 2003, al quale sono stati contestati i seguenti tre episodi di rilevanza disciplinare:
Stando all’analisi posta dal Tribunale di Udine, il licenziamento disciplinare comminato doveva considerarsi illegittimo per difetto di giusta causa e, in sede di opposizione alla precedente risoluzione del rapporto con pagamento di un’indennità risarcitoria, veniva annullato condannando la società alla reintegra nel posto di lavoro ed alla corresponsione di un’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, legge 20 maggio 1970, n. 300.
Su istanza del datore di lavoro, la Corte d’Appello di Trieste accoglieva parzialmente le doglianze giudicando che la fattispecie dovesse essere ristorata con la c.d. tutela indennitaria forte di cui all’art. 18, comma 5, della medesima norma, quantificata – stando al caso de quo – in venti mensilità della retribuzione mensile, oltre interessi e rivalutazione.
La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che, quanto alla prima contestazione, non vi fosse alcun rilievo disciplinare e, quanto alle successive, non potendosi rinvenire previsioni collettive applicabili al caso concreto – perché assai generiche ed indefinite – risultasse esclusa l’applicazione del predetto comma 4, sicché tale tutela trova carattere residuale e specificatamente solo nel caso in cui il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro e che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa. Di conseguenza, ritenuta inapplicabile la reintegra del lavoratore si è dato corso alla tutela indennitaria di cui al quinto comma dell’art. 18 sopra citato.
In riforma alla sentenza del giudice di seconde cure, gli Ermellini affermano che laddove la previsione contrattuale sia generica, il giudice è demandato di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta. Tale operazione, però, non si esaurisce in una generica valutazione di proporzionalità della stessa rispetto alla sanzione irrogata, sicché l’interpretazione della norma collettiva formulata attraverso una clausola generale o elastica non può prescindere dal giudizio che afferisce alla ricostruzione della portata precettiva della norma. L’attività di sussunzione della condotta contestata espressa attraverso le suddette clausole generali o elastiche non deve trasmodare nel giudizio di proporzionalità della sanzione, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, sull’assunto principio di proporzionalità eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. Non si tratta, dunque, di un’autonoma valutazione di proporzionalità tra sanzione e fatto, ma di una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta, talché è necessario accertare se la condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva.
Ne discende che anche nel caso in cui le condotte disciplinarmente rilevanti previste dai contratti collettivi non siano definite in maniera rigida e secondo fattispecie tassative, avendo caratteri di indeterminatezza comunque riconducibili agli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, non è preclusa l’interpretazione integrativa che il giudice deve svolgere per l’individuazione della corretta tutela in concreto applicabile.
Diversamente, ove si valorizzasse esclusivamente la tipizzazione delle fattispecie, a scapito dell’utilizzo di clausole generali o elastiche, si finirebbe per andare in contrasto con la stessa volontà delle parti sociali che nell’aprire o chiudere la norma collettiva con la disposizione del contenuto generale hanno comunque inteso demandare all’interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione indicata dalla disposizione collettiva.
Invero, nel comma 4, art. 18, legge 20 maggio 1970, n. 300, a mente del quale il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, … perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, le espressioni utilizzate dal legislatore quali “fatto” che rientra tra le “condotte” punibili con una sanzione conservativa ed il rinvio alle “previsioni” dei contratti collettivi e dei codici disciplinari autorizza a ritenere che l’operazione interpretativa sostenuta dai giudici della Suprema Corte sia conforme al tenore testuale della norma. Non si evince, infatti, alcun ragionevole richiamo ad una tipizzazione specifica e rigida delle singole fattispecie, sicché laddove la disposizione di derivazione collettiva contenga, accanto a fattispecie tipiche, clausole generali o elastiche di apertura o di chiusura è il giudice che dovrà riempierle di contenuto.
D’altronde, se la finalità dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori è quella di valorizzare l’autonomia collettiva e imporre una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per comportamenti che il CCNL punisce con sanzione conservativa, tale funzione deve essere svolta in misura del tutto analoga sia per i fatti tipizzati che per le clausole generali o norme elastiche. Diversamente, una distinzione tra le due predette ipotesi, reintegra nel primo caso e tutela indennitaria nel secondo, si risolverebbe in una ingiustificata disparità di trattamento del tutto illogica ed in contrasto con il fine stesso propostosi dal legislatore.
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