L'utilizzo, per fini difensivi, di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro, non necessita del consenso dei presenti.
Ciò, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza, da una parte, e della tutela giurisdizionale del diritto, dall'altra, contemperando la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal Codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
E' pertanto legittima la condotta del lavoratore che abbia effettuato le registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova.
Tale condotta, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, risponde alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.
Sono i principi richiamati dalla Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 28398 del 29 settembre 2022, pronunciata in parziale riforma di una decisione assunta dalla Corte d'appello in riferimento alla legittimità del licenziamento disciplinare comminato alla dipendente di una società.
Il giudice del gravame aveva confermato la declaratoria di illegittimità del licenziamento, condannando la società datoriale alla reintegra nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria.
Era stato infatti rilevato come gli addebiti contestati alla lavoratrice fossero privi di riscontro e, comunque, relativi a condotte di inefficienza o negligenza, conosciute e tollerate da parte datoriale nonché conformi alla prassi aziendale praticata anche prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro con la deducente.
Tali addebiti non avevano carattere di gravità e non giustificavano l'irrogazione della sanzione espulsiva, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa, secondo le previsioni del contratto collettivo di riferimento.
In tale contesto, tuttavia, la Corte territoriale non aveva accolto la domanda avanzata dalla lavoratrice, al fine di far valere il carattere ritorsivo del recesso, carattere ritenuto non provato in base alle deposizioni testimoniali raccolte né attraverso le registrazioni di conversazioni tra la lavoratrice e un collega, considerate dai giudici di appello “abusive ed illegittimamente captate" e come tali non idonee a costituire fonte di prova.
Per contro, secondo la lavoratrice - che aveva avanzato ricorso incidentale in sede di legittimità - la sentenza impugnata, nell'escludere la ritorsività del recesso, era partita da un presupposto errato, ossia dalla non utilizzabilità delle registrazioni dei colloqui tra presenti, e ciò in contrasto con il sopra richiamato orientamento di legittimità e sebbene controparte non avesse in alcun modo contestato lo svolgimento dei colloqui registrati e il relativo contenuto.
Tale doglianza è stata giudicata fondata dai giudici di Piazza Cavour, secondo i quali la Corte di secondo grado, pur citando i precedenti di legittimità nel senso indicato, aveva deciso di discostarsene sul presupposto che le conversazioni fossero di per sé “abusive e illegittimamente captate e registrate”, senza in alcun modo indagare sulla ricorrenza dei requisiti che avrebbero legittimato, a fini di prova, le registrazioni di conversazioni tra presenti.
Indagine, quest'ultima, tanto più necessaria in relazione alle difficoltà di assolvimento dell’onere probatorio gravante sul lavoratore che denunci la ritorsività del licenziamento intimatogli.
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