Il reato di cui all’articolo 236 della Legge fallimentare - che punisce chi, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo o di ottenere l'omologazione di un accordo di ristrutturazione, si sia attribuito attività inesistenti, ovvero, per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti – si applica anche con riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale.
Lo ha confermato la Quinta sezione penale della Corte di cassazione, con sentenza n. 39517 del 3 settembre 2018, affermando il principio di diritto secondo cui le innovazioni normative degli aspetti civilistici dell'istituto del concordato preventivo con continuità aziendale di cui all'articolo 186-bis della Legge fallimentare, introdotto dal convertito Decreto-legge n. 83/2012, “non costituiscono modificazioni della norma extrapenale integratrice del precetto di cui all'art. 236 della medesima L. Fall., che trova applicazione anche in riferimento al concordato preventivo con continuità dell'attività di impresa”.
Difatti – spiegano gli Ermellini - l'intervento normativo attuato con l’inserimento, nella Legge fallimentare, dell'art. 186-bis ha comportato la mera previsione, in dettaglio, di speciali benefici connessi all'istituto del concordato con continuità aziendale, già previsto strutturalmente “in quanto rientrante nel novero delle molteplici forme in cui la procedura concordataria poteva già atteggiarsi, in presenza dei previsti requisiti”.
Così, la circostanza che la norma incriminatrice non richiami espressamente l'articolo 186-bis appare del tutto in linea con la funzione e la struttura della predetta norma extrapenale, e non esprime, per contro, nessuna volontà del legislatore di escludere rilievo penale a gravi condotte consumate prima o mediante la procedura di concordato con continuità aziendale.
Nella vicenda specificamente esaminata, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avanzato da un uomo, indagato di plurimi fatti di bancarotta, che si era opposto all’ordinanza del Gip, confermata in sede di riesame, di applicazione, nei suo confronti, degli arresti domiciliari.
La misura cautelare era stata disposta sulla base della riscontrata sussistenza di un pericolo attuale di recidiva, alla luce dei numerosi elementi dimostrativi versati in atti, per come ampiamente illustrati nell'ordinanza medesima.
Contro questo provvedimento, l’indagato aveva avanzato ricorso in sede di legittimità lamentando, tra gli altri motivi, che il Tribunale avesse applicato, in via analogica, la norma penale incriminatrice ad una fattispecie non prevista (appunto il concordato preventivo con continuità aziendale).
Motivo che, come detto, non ha trovato riscontro davanti alla Suprema corte la quale, per contro, ne ha affermato la infondatezza.
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