Comportamenti elusivi e norme di contrasto
Si ha un comportamento elusivo quando un contribuente attraverso l’uso distorto delle norme e l’adozione di comportamenti finalizzati ad aggirare gli obblighi impositivi, pur non violando formalmente alcuna disposizione di legge ottiene un risparmio di imposta indebito. Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi, e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni.
In Italia l'assenza di un disegno organico e coordinato da parte del Legislatore, e l’assenza di una norma generale di contrasto, hanno concorso a rendere intricato il concetto di “pratica elusiva”, con il conseguente proliferare di definizioni del fenomeno per effetto dell’attività giurisprudenziale sia nazionale che comunitaria.
Le disposizioni antielusive contenute nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, erano il risultato di una revisione dei criteri di individuazione delle operazioni di natura potenzialmente elusiva indicate dalla Legge n. 408/1990 attuata con l’obiettivo di favorire un maggiore coordinamento tra la disciplina delle operazioni straordinarie, quella delle imposte dirette e la normativa comunitaria. L'articolo 37-bis è stato abrogato dall' articolo 1 comma 2 del D.Lgs. n. 128/2015, e ai sensi del suddetto articolo le disposizioni che richiamano l'abrogato articolo 37-bis si intendono riferite all'art. 10-bis della legge 27 luglio 2000 n. 212 in quanto compatibili.
L’obiettivo del Legislatore con l'introduzione del citato art. 37-bis, era quello di contrastare l’elusione d’imposta con strumenti meglio organizzati rispetto a quelli già esistenti superando i principali inconvenienti riscontrati nella Legge 408/1990 alla luce di alcuni anni di esperienze pratiche e di analisi giuridiche, riproponendo un modello sostanzialmente simile a quello fino ad allora in vigore, caratterizzato dalla convivenza di una clausola antielusiva semigenerale applicabile a determinati casi con una pluralità di norme antielusive specifiche.
Con l’art. 37-bis, il Legislatore definiva inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.
La disposizione conteneva già gli elementi sufficienti per costituire una clausola antielusiva generale, poi il legislatore ha limitato l’applicazione di una clausola potenzialmente generale ad un insieme ristretto di fattispecie, individuando un elenco tassativo dei casi in cui è possibile applicare le disposizioni previste rendendo così la norma una clausola antielusiva “semi-generale”.
La nuova normativa era di diretta derivazione dell’articolo 10 della L. n. 408/1990, tuttavia rispetto al suddetto art. 10, si differenziava per alcune importanti novità.
Nella nuova disposizione antielusiva non è più previsto che la condotta posta in essere sia “fraudolenta”, ma è sufficiente un “aggiramento di obblighi e divieti”.
La disposizione non fa più alcun riferimento allo “scopo esclusivo” dell’ottenimento del vantaggio fiscale, essendo sufficiente che questo sia volto ad “aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario”.
Altra importante novità rispetto all’art. 10 della L. n. 408/1990 si ravvisa nell’inserimento dell’aggettivo “indebito” riferito al risparmio d’imposta, che ha una rilevanza fondamentale in quanto definisce (o avrebbe dovuto definire) la linea di demarcazione tra il concetto di elusione fiscale e legittimo risparmio d’imposta.
Per comprendere cosa il Legislatore intende con l’espressione elusione fiscale è necessario distinguere innanzitutto le fattispecie riconducibili al semplice risparmio d’imposta e all’evasione. Secondo quanto osservato in dottrina la difficile connotazione dell’elusione fiscale all’interno del nostro ordinamento la fa collocare in uno spazio intermedio tra risparmio (lecito) di imposta ed evasione.
Tale differenza è normata dalle disposizioni dell’art. 10-bis della L. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) disciplinante l’abuso del diritto o l’elusione fiscale introdotta dal D.Lgs. n. 128/2015.
In particolare per poter definire correttamente la nozione di elusione fiscale è necessario distinguerla anzitutto dal lecito risparmio d’imposta.
In generale è possibile affermare che nel caso del lecito risparmio d’imposta il vantaggio conseguito dal contribuente viene consentito dalla legge, nell’elusione il comportamento adottato rappresenta invece un utilizzo distorto delle previsioni normative.
Alla stregua di tale definizione, il lecito risparmio di imposta consiste dunque nel riconoscimento al contribuente da parte dell’ordinamento giuridico, della possibilità di scegliere liberamente fra una molteplicità di percorsi giuridici fra loro fungibili in funzione della maggiore o minore convenienza fiscale, si tratta dunque di un principio immanente dell’ordinamento che risulta rispettoso dei principi di autonomia contrattuale e di libera iniziativa economica.
Gli esempi di tale ipotesi sono diversi, si pensi alle operazioni di trasformazione societaria finalizzate a conseguire una minore imposizione, o all’acquisizione di partecipazioni per rientrare nel regime del consolidato fiscale, o alla possibilità di scegliere tra cedere aziende e cedere partecipazioni o tra finanziamento basato su capitale proprio e di debito, alla scelta del periodo d’imposta in cui incassare proventi o pagare spese, fino alla misura degli ammortamenti, degli accantonamenti e di tutte le altre valutazioni di bilancio.
Nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 128/2015 viene in particolare specificato che non si realizza una condotta abusiva quando il contribuente scelga, per dare luogo all’estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché alla liquidazione della stessa. Viene riportato che se è vero che la prima operazione è a carattere neutrale e la seconda ha invece natura realizzativa, nessuna disposizione tributaria mostra preferenza per l’una o l’altra previsione.
Come osservato dalla dottrina un problema consiste nel distinguere sostanzialmente il risparmio d’imposta fisiologico da quello patologico. Il primo ha origine quando il contribuente si limita a scegliere tra le diverse alternative offerte dal Legislatore quella a lui più conveniente, limitandosi a utilizzare a proprio vantaggio la normativa esistente senza realizzare nessuna violazione. Il risparmio diventa invece patologico quando è conseguenza dell’abuso delle imperfezioni della legislazione, ovvero del portare a proprio favore incompletezze o difetti in modo da ottenere risultati che pur formalmente legittimi, vanno contro il sistema nel suo complesso.
Nel caso dell’elusione fiscale dunque il risparmio ottenuto non è più qualificabile come fisiologico, ma diventa patologico, poiché l’utilizzo degli espedienti per quanto leciti, stride con i principi sostanziali del sistema che disciplinano la materia.
In questo caso il contribuente non si limita a scegliere una delle alternative offerte dal legislatore, ma raggira a proprio favore singole previsioni normative raggiungendo un risultato nel complesso contro il sistema.
I primi tentativi di definire la fattispecie elusiva muovono anche dalla distinzione con il comportamento evasivo. Il comportamento evasivo si configura come una vera e propria violazione della norma tributaria, sanzionata sia sul piano amministrativo e qualora vengano superate le soglie di punibilità previste dal D.Lgs. n. 74/2000, anche sul piano penale.
Il comportamento elusivo al contrario viene realizzato senza violazione della norma, l’elusione consiste nell’organizzare un percorso negoziale che conduca il soggetto al risultato economico voluto, non avendosi né falsità materiale (scritture, documenti materialmente alterati o contraffatti) né ideologica (documenti contenenti dichiarazioni non conformi alla realtà dei fatti accaduti).
La distinzione tra elusione ed evasione viene chiarita dall’art. 10-bis della L. n. 212/2000, al comma 12, il quale prevede che in sede di accertamento, l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie.
Si tratta del riconoscimento ex lege che l’abuso del diritto ovvero l’elusione fiscale, può configurarsi solamente laddove non si rientri in ipotesi di evasione.
Nel sistema delineato dal previgente art. 37-bis, alla base del comportamento elusivo si pone “l’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”, quindi un comportamento che pur non violando in maniera diretta la norma impositiva, permette di raggiungere vantaggi o agevolazioni non spettanti, perché contrari alla ratio della norma stessa.
L’aggiramento può considerarsi il primo elemento essenziale della condotta elusiva, se il comportamento viola il dettato della norma non si ha elusione, ma una vera e propria condotta illecita che come anticipato, sfocia nell’evasione.
Altro presupposto essenziale integrante la condotta elusiva di cui all’art. 37-bis sono i vantaggi tributari che il contribuente conseguirebbe per mezzo dell’aggiramento della norma imperativa.
In origine l’articolo 10 della L. n. 408/1990 faceva riferimento allo “scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta”, avverbio poi sostituito con espressioni maggiormente rappresentative del comportamento elusivo.
Anche secondo quanto sostenuto dall’amministrazione finanziaria il conseguimento del “vantaggio indebito” rappresenta l’elemento essenziale della fattispecie poiché, nel caso in cui questo manchi, non può configurarsi elusione con la conseguenza che non può essere legittimato alcun disconoscimento.
Si ricorda comunque che il mero conseguimento di un vantaggio tributario non qualifica necessariamente una condotta come elusiva, perché potrebbe ben configurarsi come un lecito risparmio d’imposta, conseguito senza l’aggiramento di alcuna norma imperativa.
Secondo la stessa amministrazione finanziaria, il conseguimento di un vantaggio fiscale con l’aggiramento di una norma imperativa (e quindi qualificabile come “indebito”), non implica obbligatoriamente la sussistenza di elusione, ben potendo accadere che operi la scriminante delle valide ragioni economiche.
L’ordinamento tributario italiano sin dagli anni novanta ha mostrato un particolare interesse nei confronti dell’elusione fiscale internazionale, ad esempio al fine di contrastare la delocalizzazione dei redditi in giurisdizioni a bassa fiscalità, introducendo diverse disposizioni antielusive specifiche, spesso “esasperando l’uso e l’abuso delle fattispecie legali e delle presunzioni”.
Nello specifico si possono citare le diverse normative come:
la presunzione di residenza in Italia delle persone fisiche che trasferiscono la loro residenza in paradisi fiscali, di cui al comma 2-bis dell’articolo 2 del TUIR, introdotto nel nostro ordinamento della Legge 23 dicembre 1998, n. 448, con effetto dal 1° gennaio 1999;
la presunzione di residenza in Italia delle società con sede legale all’estero, ma con sede di direzione effettiva in Italia, di cui al comma 5-bis dell’articolo 73 del TUIR (inseriti nel nostro ordinamento dall’articolo 35 del Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223 – c.d. Decreto Bersani);
il regime CFC (articolo 167 del TUIR), relativo alle imprese controllate estere, di recente modificato sia dal Decreto Internazionalizzazione (Decreto Legislativo del 14 settembre 2015, n. 147) che dalla Legge di Stabilità 2016 (Legge del 28 dicembre 2015, n. 208), anche per quanto concerne l’individuazione degli Stati o territori aventi regime fiscale privilegiato;
il regime di tassazione integrale dei dividendi provenienti da Stati o territori black list prevista nell’articolo 47, comma 4, e 89, comma 3, del TUIR, (di recente modificato dal Decreto Internazionalizzazione);
la distribuzione di dividendi effettuati a soggetti comunitari controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in Stati UE, di cui al comma 5 dell’articolo 27-bis del D.P.R. 600/1973;
il regime di indeducibilità delle spese e dei componenti negativi di reddito derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori Black List non comunitari aventi un regime fiscale privilegiato (norma ora abrogata, con effetto dal 1° gennaio 2016, dal comma 142 dell’articolo 1 della Legge di Stabilità 2016);
il trasferimento all’estero della residenza o della sede dei soggetti che esercitano imprese commerciali, di cui all’articolo 166 del TUIR, di recente modificato dall’articolo 11 del Decreto Internazionalizzazione.
La scelta compiuta dal Legislatore è stata quella di contrastare l’elusione fiscale internazionale attraverso disposizioni puntuali, analitiche, che tuttavia non hanno contributo a dare una visione organica e complessiva della materia, ma l'anno resa in molto casi frammentaria.
Per dare un contributo sistematico e ricostruttivo all’intera materia, è possibile individuare un primo comparto di norme che si basano su presunzioni legali relative (ad esempio quella relativa alla presunzione di residenza in Italia delle persone fisiche che trasferiscono la loro residenza in Stati o territori a regime fiscale privilegiato e alla presunzione di residenza delle società con sede legale all’estero, ma con sede di direzione effettiva in Italia, c.d. esterovestizione societaria) e un secondo insieme di norme relative alla:
tassazione dei redditi delle imprese controllate estere, c.d. disciplina CFC;
tassazione dei dividendi che provengono da Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato o corrisposti soggetti comunitari che direttamente o indirettamente sono controllati da soggetti non comunitari.
Nell’ambito del primo insieme di norme, il trasferimento in Stati o territori a regime fiscale privilegiato delle persone fisiche trova disciplina nel comma 2-bis dell’articolo 2 del TUIR, secondo il quale si considerano residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori Black List.
Questa è chiaramente una disposizione antielusiva che concretizzandosi con la cancellazione della persona fisica dall’Anagrafe della popolazione residente e con l’emigrazione contestuale verso uno Stato o territorio a regime fiscale privilegiato, di fatto “aggredisce” la posizione formale delle persone fisiche iscritte all’AIRE (Anagrafe della Popolazione italiana residente all’estero), “costringendo” tali soggetti a dimostrare l’effettività della propria residenza all’estero.
Il tema della residenza delle persone fisiche potrebbe assumere rilevanza anche ai fini della presunzione legale relativa prevista in tema di società dal comma 5-bis dell’articolo 73 del TUIR (esterovestizione societaria) nella misura in cui al ricorrere delle condizioni previste dalla norma, la società o ente estero sia amministrata da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia.
La fattispecie contemplata dalla norma prevede che, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73 del TUIR se in alternativa:
sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
sono amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo equivalente di gestione composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Relativamente al secondo insieme di norme, nel contesto del diritto tributario internazionale assume rilevanza la normativa sulle Controlled Foreign Company (disciplina CFC) adottata da molti paesi e fortemente incoraggiata in ambito internazionale dall’OCSE.
Il sistema adottato dal nostro Legislatore al fine della implementazione della normativa sulle CFC e volto a contrastare fenomeni di elusione fiscale si ispira al c.d. all’entity approach il quale si qualifica per il fatto che il reddito conseguito dal soggetto estero partecipato è imputato al soggetto controllante residente nella sua unitarietà, a prescindere dunque dalla composizione del reddito.
La scelta del Legislatore italiano è mirata ad impedire ai contribuenti residenti la localizzazione delle proprie attività, indipendentemente dalla tipologia di reddito cui danno luogo in giurisdizioni a bassa fiscalità, finalizzata all’elusione dell’imposta.
Qualche considerazione sulla normativa CFC è interessante farla in relazione alla sua estensione al ricorrere di particolari condizioni, alle società controllate residenti UE (ad opera dell’articolo 13 del Decreto n. 78 del 1 luglio 2009, c.d. Decreto Anticrisi), per verificare se e in quale misura le finalità antielusive della normativa siano compatibili con le libertà fondamentali garantite dal Trattato UE.
L’articolo 13, comma 1, lett. a), del decreto 78/2009 ha modificato la prima circostanza esimente prevista dalla normativa, di cui all’articolo 167, comma 5, lettera a) del TUIR, prevedendo che la disciplina CFC non trova applicazione qualora la società controllata estera residente, ovvero localizzata, in un paradiso fiscale svolge un’effettiva attività industriale o commerciale come sua principale attività nel mercato dello Stato o nel territorio di insediamento.
Risulta evidente l’attenzione posta dal Legislatore al mercato dello Stato o territorio nel quale la società controllata estera è insediata.
Inoltre ai sensi del nuovo comma 8-bis dell’art. 167 del TUIR (modificato dall’articolo 1, comma 142, lett. b), n. 4, della Legge di Stabilità 2016) l’ambito di applicazione della disciplina è stato esteso a tutte le imprese estere controllate ovunque residenti, pertanto anche comunitarie.
A tal fine è necessario che si verifichino congiuntamente in capo al soggetto controllante italiano le seguenti condizioni relative alle società controllate non residenti:
sono assoggettate a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero state soggette ove residenti in Italia;
hanno conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari.
Come disposto dal comma 8-ter del citato art. 167 tale disposizione non si applica se il soggetto residente dimostra che l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.
La finalità antielusiva propria della norma, all’interno della UE, è da ritenersi compatibile con le libertà fondamentali del Trattato, solamente se e nella misura in cui sia volta a “colpire” le costruzioni di puro artificio, prive di sostanza economica reale, che non svolgono alcuna attività d’impresa. Inoltre detta costruzione deve essere volta al conseguimento di un vantaggio fiscale indebito, ossia disapprovato dal sistema delle norme sia comunitarie che nazionali.
Quadro Normativo |
D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973 Decreto legislativo n. 128 del 5 agosto 2015 Legge n. 212 del 27 luglio 2000 Legge n. 408 del 29 dicembre 1990 |
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