Sollevati dubbi di discriminazione in relazione al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, da parte degli stranieri, al fine di ottenere l’assegno di natalità (cd. “bonus bebè”) e maternità. Infatti, sarà la Corte di Giustizia di Lussemburgo a chiarire se la norma italiana è in linea con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Ecco i dettagli della Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 182 del 30 luglio 2020.
Per quanto riguarda l’assegno di natalità, il cd. “bonus bebè”, non riconducibile all’assegno speciale di nascita o di adozione menzionati dall’allegato 1 al Regolamento (Ce) 883/2004, la Consulta ipotizza la possibilità di qualificarlo come prestazione familiare secondo lo stesso Regolamento, rendendo così possibile applicare il principio di parità di trattamento.
Per la Consulta, infatti, oltre alla funzione premiale della norma, che espressamente prevede il fine di “incentivare la natalità”, si può valorizzare l’ulteriore obiettivo di sostenere i nuclei familiari in condizioni economiche precarie, come si può desumere dalla formulazione originaria della norma che indicava il reddito come presupposto per l’assegno.
Dunque, la finalità delle menzionate agevolazioni è di dare un sostegno alle famiglie più disagiate e di assicurare ai minori le cure essenziali. Ciò rimane confermato anche dalle recenti modifiche normative che, pur considerando l’assegno come provvidenza universale, ne modulano l’importo in base alle diverse soglie di reddito e dunque al grado di bisogno.
In merito all’assegno di maternità è stato chiesto agli eurogiudici se l’assegno di maternità vada incluso nella garanzia di cui all’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali “letto alla luce del diritto secondario che mira ad assicurare uno stesso insieme comune di diritti basato, sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro, a tutti i cittadini di paesi terzi che soggiornano e lavorano regolarmente negli Stati membri, vincolando questi ultimi all’indicato obiettivo”.
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