In tema di equa riparazione, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Sicché, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, il giudice, una volta accertata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, deve ritenere sussistente detto danno non patrimoniale, ogniqualvolta – come nel caso in esame – non ricorrano circostanze particolari che lo facciano positivamente escludere.
Né, d’altra parte, la indennizzabilità del danno di cui si tratta, può essere esclusa sul rilievo dell’esiguità della “posta in gioco” nel processo presupposto, in quanto l’ansia ed il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano anche quando l’oggetto della contesa è esiguo. Pertanto tale aspetto può avere, semmai, solo un effetto riduttivo dell’entità del risarcimento, ma mai escluderlo totalmente.
A stabilirlo, la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, accogliendo le ragioni di una donna che, lamentandosi per l’eccessiva durata di un’espropriazione presso terzi, chiedeva che si ingiungesse al Ministero dell’Interno di corrisponderle una somma a titolo di equo indennizzo.
La Corte d’appello aveva dapprima respinto la domanda, sull'assunto che l’esiguità dell’importo di cui al giudizio presupposto, era tale da indurre a ritenere che l’irragionevole durata del processo non avesse avuto conseguenze stressanti per l’interessata.
Ragionamento tuttavia errato secondo la Corte Suprema – con sentenza n. 6643 del 15 marzo 2017 – per cui il giudizio presupposto non può invece reputarsi di carattere bagattellare, né la relativa posta in gioco (circa 645 euro) esigua, quanto meno per lo status della ricorrente, di bracciante agricola con modesto livello di reddito.
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