Legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente per indebita fruizione di permesso sindacale, utilizzato per finalità personali del tutto estranee a quella propria del permesso medesimo.
E' quanto concluso dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 26198 del 6 settembre 2022, nel rigettare l'impugnazione promossa da un lavoratore contro la decisione della Corte d'appello, confermativa del suo licenziamento.
La Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto che il fatto oggetto di addebito - indebito utilizzo del permesso sindacale per svolgere attività ad esso estranee - non potesse essere sussunto fra le condotte non punibili con la sanzione espulsiva alla stregua del contratto collettivo specificamente applicabile. Quest'ultimo, in particolare, sanzionava con il licenziamento solo l'assenza ingiustificata protratta per oltre cinque giorni consecutivi o ripetuta per cinque volte in un anno nei giorni che seguivano le festività e le ferie.
Secondo il giudice di secondo grado, ciò che rilevava, nello specifico, non era solo l'assenza ingiustificata ma il fatto che il dipendente avesse posto in essere una condotta di vero e proprio abuso del diritto, connotata da maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma collettiva.
Il prestatore si era rivolto alla Suprema corte censurando la decisione di merito proprio per non avere ricondotto la fattispecie in esame all'ipotesi dell'assenza ingiustificata, punita dal contratto collettivo esclusivamente con sanzione conservativa.
Gli Ermellini hanno giudicato inammissibile tale doglianza, che non si confrontava specificamente con la ricostruzione fattuale e la qualificazione giuridica della condotta del dipendente in termini di abuso del diritto.
Tale qualificazione appariva coerente con l'accertamento della concreta vicenda, venendo in rilievo, come detto, non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali.
Ciò escludeva la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che punivano con sanzione conservativa l'assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro.
Per la Cassazione, in definitiva, le censure articolate dal ricorrente non contrastavano in maniera argomentata la ricostruzione e la relativa qualificazione operate dal giudice di merito, soffermandosi su aspetti estranei alla reale ratio decidendi.
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