Pedopornografia, parola alla Cassazione

Pubblicato il 24 marzo 2016

Di recente la giurisprudenza di legittimità è più volte tornata sull'interpretazione del reato di pornografia minorile di cui all'art. 600 ter c.p., il quale sanziona chiunque (comma 1):

1. Utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico;

2. Recluta o induce minori degli anni diciotto a partecipare ad esibizioni o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli trae profitto.

E’ parimenti punito chiunque fa commercio del materiale pornografico di cui al primo comma (comma 2) o chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza predetto materiale pornografico ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto (comma 3).

La medesima norma sanziona infine l’attività di colui che, al di fuori delle ipotesi di cui ai primi tre commi, offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, predetto materiale pornografico (comma 4).

Non manca inoltre di precisare che, per pornografia minorile, va intesa ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore degli anni diciotto per scopi sessuali.

Cosa dice la giurisprudenza

Reato, se è accertata la volontà di diffondere

Come è stato evidenziato in una serie di pronunce (in particolare, Corte di Cassazione, sentenza n. 30465 del 15 luglio 2015), affinché sussista l’elemento soggettivo nel reato di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico (trattasi in particolare del comma 3), occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi il materiale pedopornografico (nel caso de quo, mediante download del file dalla rete), ma anche la specifica volontà di distribuirlo, diffonderlo, divulgarlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici ed ulteriori rispetto all'utilizzo di un programma di file sharing (conforme, si veda Corte di Cassazione, sentenza n. 47820/2013) .

In altre parole - concludono i giudici nel caso qui esaminato -  la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, non implica di per sé e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente la volontà di diffonderlo.

Diversamente ragionando, si configurerebbe una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione, o ancora, una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che il soggetto, per procurarsi il file, abbia utilizzato un determinato programma di condivisione piuttosto che un altro (si veda anche Corte di Cassazione, sentenza n. 11082 del 12 gennaio 2010).

Ma un tale percorso argomentativo, fondato cioè sull'uso dello specifico programma di file sharing, non appare corretto né esauriente, poiché dovrebbe essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la volontà dell’imputato fosse di semplice approvvigionamento oppure di diffusione e divulgazione del materiale pornografico procuratosi (si vedano Corte di Cassazione, sentenza n. 46305 del 7 agosto 2014 e n. 261045 del 10 novembre 2014).

Reato, se il file è concretamente utilizzabile

La Corte di legittimità è inoltre intervenuta anche in ordine all’elemento oggettivo del reato in questione, che si fonda altresì sulla concreta utilizzabilità del file da parte dell’agente, in considerazione delle sue conoscenze tecniche e degli strumenti a sua disposizione. Così la Cassazione, con sentenza n. 10491/2014, è giunta ad escludere la fattispecie penale, non potendosi parlare di materiale pedopornografico laddove ci si riferisca a minuscoli frammenti di file non coordinati e consequenziali tra loro e di conseguenze illeggibili ed inutilizzabili.

Reato, se c’è concreto pericolo di diffusione

Con una recente pronuncia la Suprema Corte è nuovamente intervenuta – in ordine al concetto di diffusione di materiale pedopornografico – confermando la condanna di un imputato, per aver indotto una dodicenne a realizzare fotografie erotiche ed averle poi inviate dal suo profilo di Facebook alla bacheca del profilo di un’amica della vittima (Corte di Cassazione, sentenza n. 16340/2015).

In questa occasione, la Corte ha innanzitutto richiamato un costante insegnamento nomofilattico, per cui il delitto di pornografia minorile costituisce reato di pericolo concreto, mediante il quale l’ordinamento appresta una tutela anticipata alla libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fini di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l’immissione nel circuito perverso della pedofilia. 

E’ quanto insegnano le Sezioni Unite con una risalente ma confermata pronuncia (n. 13 del 31 maggio 2000) secondo cui il reato sussiste quando ricorre un concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto; pericolo che deve essere accertato volta per volta dal giudice sulla base di vari elementi sintomatici, tra i quali la Corte annovera anche l’esistenza di una struttura organizzativa (seppure rudimentale o embrionale)  atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili, nonché la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pedopornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari.

Detto insegnamento, si è detto, ha poi trovato conferma nelle pronunce di legittimità susseguenti, che hanno sempre individuato quale elemento fondante del reato, la consistenza del concreto pericolo di diffusione (si veda Corte di Cassazione, sentenza n. 49604/2009), tale da non limitare la fruizione del prodotto pornografico in una sfera strettamente privata (Corte di Cassazione, sentenza n. 17178 dell’11 marzo 2010 e sentenza n. 1814 del 14 gennaio 2008).

Non può non notarsi tuttavia che il menzionato intervento dirimente delle Sezioni Unite – da cui è poi originata la giurisprudenza che allo stato governa l’interpretazione dell’art. 600 ter c.p. – si colloca in epoca ormai risalente, essendosi negli ultimi quindici anni espanso, ad un livello all’epoca non prevedibile, il fenomeno dei cosiddetti social networks, ovvero la intensa potenza comunicativa anche tra privati attraverso la rete.

Laddove, pertanto, le Sezioni Unite chiedevano al giudice di accertare di volta in volta la potenzialità concreta di diffusione anche mediante uno strumento telematico, l’odierno notorio insegna che l’inserimento di materiale all'interno di un social network come Facebook, più non necessita di alcuno specifico accertamento in proposito. Ed anche il riferimento ad organizzazioni “rudimentali” o “embrionali”, risulta ormai superato, o meglio, anacronistico, tenendo conto della disponibilità quanto mai agevole che le strutture di comunicazione telematica sociale oggi offrono a chiunque se ne voglia avvalere, senza che occorra adoperarsi per porre in essere propri personali apparati.

Facebook idoneo a raggiungere pedofili

Il convogliamento del materiale pornografico sulla bacheca di Facebook – prosegue la pronuncia in commento – si traduce in una sorta di metastasi diffusiva con la massima facilità.

La cerchia dei pedofili non è dunque più agevolmente e specificamente estrapolabile da una platea tanto estesa ed omnicomprensiva quale quella dei social network come Facebook, per cui l’inserimento del materiale nel relativo meccanismo diffusorio è già di per sé potenzialmente idoneo, ovvero integra il pericolo di diffusione tra i pedofili.

Impiego di Facebook, consapevole volontà di divulgazione

E non assume alcun rilievo – sempre nel caso in esame – il fatto che l’imputato non avesse intenzione di condividere le immagini con il mondo dei pedofili, bensì di soddisfare i propri impulsi sessuali, essendosi egli avvalso della tutt'altro che rudimentale organizzazione di Facebook, la quale è intrinsecamente finalizzata ad ogni diffusione. E tale natura di Facebook è talmente notoria che la sua utilizzazione per versarvi del materiale pedopornografico rappresenta, quantomeno come dolo eventuale, proprio una consapevole volontà di divulgazione (conformi, Corte di Cassazione, sentenza n. 33157 del 31 luglio 2013; n. 44914 del 25 ottobre 2012; n. 46305 del 7 agosto 2014).

Reato, con materiale prodotto da terzi diversi dal minore

Con altra recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sentenza n. 11675 del 21 marzo 2016) la Suprema Corte ha infine assolto un soggetto, imputato ex art. 600 ter comma 4 c.p. per aver ceduto ad altri immagini fotografiche riprese in autoscatto direttamente dalla minore presunta vittima e da essa volontariamente cedute a terzi.

In proposito la Corte – richiamando le argomentazioni della sopra citata sentenza delle Sezioni Unite (n. 13/2000) – osserva che il presupposto logico, ancor prima che giuridico, del reato in questione, richiede che l’autore della condotta sia soggetto altro e diverso rispetto al minore da lui utilizzato, indipendentemente dal fine (di lucro o meno) che lo anima o dall'eventuale consenso, del tutto irrilevante, che il minore stesso possa aver prestato all'altrui produzione di materiale o realizzazione di spettacoli pornografici.

Alterità e diversità che non potranno ravvisarsi qualora il materiale medesimo, come nel caso esaminato, sia realizzato dallo stesso minore, in modo autonomo, consapevole, non indotto o costretto, ostando a ciò la lettera e la ratio della disposizione di cui all'art. 600 ter, sì che la fattispecie non potrà essere configurata per difetto di un elemento costitutivo.

Il Supremo Collegio aderisce pertanto all'interpretazione secondo cui la punibilità della cessione è subordinata alla circostanza che il materiale pornografico sia stato realizzato da terzi, utilizzando minori, senza che le due figure possano in alcun modo coincidere.

Il materiale pornografico di cui al comma 1 - richiamato dai successivi commi 2, 3 e 4 -  non può dunque essere individuato in qualunque rappresentazione raffigurante un minore tout court, indipendentemente da chi e come l’abbia prodotto, ma deve essere identificato in quello (e soltanto in quello) che sia stato prodotto da terzi utilizzando un minore di diciotto anni. 

Quadro Normativo

art. 600 ter c.p.;

Corte di Cassazione, sentenza n. 30465 del 15 luglio 2015;

Corte di Cassazione, sentenza n. 47820/2013;

Corte di Cassazione, sentenza n. 11082 del 12 gennaio 2010;

Corte di Cassazione, sentenza n. 46305 del 7 agosto 2014;

Corte di Cassazione, sentenza n. 261045 del 10 novembre 2014;

Corte di Cassazione, sentenza n. 10491/2014;

Corte di Cassazione, sentenza n. 16340/2015;

Corte di Cassazione, Sezioni Unite n. 13 del 31 maggio 2000;

Corte di Cassazione, sentenza n. 49604/2009;

Corte di Cassazione, sentenza n. 17178 dell’11 marzo 2010;

Corte di Cassazione, sentenza n. 1814 del 14 gennaio 2008;

Corte di Cassazione, sentenza n. 33157 del 31 luglio 2013;

Corte di Cassazione n. 44914 del 25 ottobre 2012;

Corte di Cassazione, sentenza n. 11675 del 21 marzo 2016

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