L'opposizione al decreto penale di condanna non può essere proposta a mezzo di posta elettronica certificata (PEC).
Lo ha ribadito la Cassazione confermando il provvedimento con cui il GIP aveva dichiarato l’inammissibilità di un’opposizione presentata attraverso queste modalità.
Gli Ermellini, nella sentenza n. 21056 dell’11 maggio 2018, hanno ricordato come, in tema di utilizzo dalla parte privata del mezzo della posta elettronica certificata (PEC) per le comunicazioni endoprocedimentali, la giurisprudenza di legittimità sia, allo stato, orientata “ad un riconoscimento limitato a ben definite ipotesi”, tra le quali “non si colloca quella che qui occupa”.
La Quarta sezione penale ha, in proposito, ribadito che, mentre nel processo civile il procedimento di digitalizzazione, gradualmente introdotto, è sostanzialmente ormai concluso, in quello penale esso non è stato neppure avviato, “sicché alla parte privata non è consentito l'uso del mezzo informatico in argomento per la trasmissione dei propri atti ad altre parti né per il deposito presso gli uffici, restando l'utilizzo della posta elettronica certificata riservato, come si è visto, alla sola cancelleria per le comunicazioni richieste dal pubblico ministero ex art. 151 cod. proc. pen. e per le notificazioni e gli avvisi ai difensori disposte dall'Autorità giudiziaria, giudice o pubblico ministero che sia”.
Per la Cassazione, in definitiva, in assenza di norma specifica che consenta nel sistema processuale penale alle parti il deposito di atti in via telematica, è inammissibile la presentazione dell'opposizione al decreto penale di condanna a mezzo di PEC, trattandosi di modalità non consentita dalla legge, stante il principio di tassatività ed inderogabilità delle forme per la presentazione delle impugnazioni.
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