Il licenziamento intimato al lavoratore per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, del Codice civile.
Lo ha ribadito la Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 23674 del 28 luglio 2022, pronunciata in accoglimento del ricorso promosso da un lavoratore contro la decisione di gravame che aveva ritenuto legittimo il licenziamento lui irrogato, senza tenere conto che il recesso era stato intimato l’ultimo giorno del comporto.
Nella sua decisione, la Suprema corte ha richiamato il principio già affermato a Sezioni Unite nella sentenza n. 12568/2018, secondo cui è nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto.
Per la Corte, infatti, il carattere imperativo della norma di cui all'art. 2110, comma 2, cod. civ., non consentirebbe soluzioni diverse.
Il valore della tutela della salute - hanno puntualizzato gli Ermellini - è sicuramente prioritario all’interno dell'ordinamento, atteso che l’art. 32 della Costituzione lo definisce come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" - così come lo è quello del lavoro.
In tale cornice di riferimento, la salute non può essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.
Secondo il Collegio di legittimità, peraltro, all’affermazione della nullità del licenziamento non osta nemmeno il fatto che il vigente testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori abbia collocato la violazione dell'art. 2112, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1, con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno.
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