Risarcito, ma non reintegrato nel posto di lavoro, un dipendente licenziato per aver rotto il fanale posteriore del furgone aziendale: questo il contenuto dell’interessante ordinanza n. 30701 del 29 novembre 2024, in cui la Corte di Cassazione ha così risolto la controversia tra una società di trasporti, ricorrente, e un ex dipendente, resistente.
La questione centrale del ricorso riguarda appunto la legittimità del licenziamento che la società aveva effettuato, e le motivazioni alla base della decisione del datore di lavoro.
Argomentazioni della parte ricorrente
La società sostiene che il licenziamento intimato al lavoratore sia pienamente legittimo e basato su motivazioni valide e giustificate.
In particolare, l’azienda afferma che il comportamento del dipendente, caratterizzato da incuria e sciatteria, sia incompatibile con le esigenze organizzative e produttive dell’impresa.
Secondo la parte ricorrente, le circostanze che hanno portato al licenziamento sono legate a comportamenti ripetuti e gravi inadempimenti da parte del dipendente, che non solo avevano compromesso il buon andamento dell'attività aziendale, ma avevano anche generato disservizi.
E’ stato inoltre sottolineato che i tentativi di risoluzione delle problematiche con il lavoratore attraverso altre misure disciplinari (quali richiami verbali e scritti) non avevano avuto esito positivo.
In questo contesto, il licenziamento sarebbe stata dunque l’unica soluzione possibile per tutelare gli interessi dell’azienda e mantenere la serenità e l’efficacia nell’ambito lavorativo.
Infine, la parte ricorrente ha posto enfasi sulla procedura seguita per il licenziamento, ritenendo che tutte le disposizioni di legge siano state rispettate, inclusa la necessità di fornire una motivazione chiara e documentata.
L’azienda ha infatti affermato che ogni passaggio della procedura di licenziamento, dall’avvio alla contestazione delle mancanze, fino alla comunicazione finale, era stato correttamente eseguito secondo le normative previste.
Argomentazioni della parte resistente
Dal lato opposto, la parte resistente contesta fermamente la legittimità del licenziamento presentando una serie di argomentazioni per dimostrare che la decisione della propria ex azienda fosse ingiustificata.
In primo luogo, viene sostenuto che le accuse mosse dall’impresa sono infondate e che le presunte violazioni disciplinari non sono mai state chiaramente comunicate né documentate in modo adeguato: non vi erano dunque prove concrete che potessero giustificare l’introduzione di misure così drastiche come il licenziamento.
Inoltre, il dipendente ha affermato che la procedura di licenziamento non era stata corretta, mancando di una possibilità adeguata di difesa.
In particolare, nonostante il dipendente avesse richiesto chiarimenti e opportunità di confrontarsi con la direzione, la decisione era stata presa senza una previa discussione adeguata.
Viene inoltre sostenuto che le ragioni addotte dalla parte ricorrente per giustificare il licenziamento non sono proporzionate rispetto alla gravità degli inadempimenti, evidenziando come altri dipendenti in situazioni simili avessero ricevuto sanzioni meno gravi, mettendo in discussione dunque la motivazione discriminatoria alla base della decisione.
Infine, la parte resistente ha fatto riferimento al diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, che garantisce ai lavoratori la protezione contro azioni drastiche da parte dei datori di lavoro senza un giusto motivo.
La difesa ha dunque invocato questo principio, chiedendo che la Corte annullasse il licenziamento, ritenendolo illegittimo.
La Cassazione ha esaminato con attenzione la legittimità del licenziamento operato dalla società focalizzandosi su due aspetti principali: la motivazione del licenziamento e il rispetto della procedura legale prevista.
Motivazione
La Corte ha ritenuto che la motivazione del licenziamento addotta dalla parte ricorrente non fosse sufficientemente documentata e supportata da prove concrete.
Sebbene la società avesse infatti ritenuto il comportamento del lavoratore incompatibile con le esigenze aziendali, viene sottolineato che le motivazioni fornite non erano abbastanza dettagliate o dimostrabili in modo oggettivo.
In particolare, è stato messo in evidenza che il datore di lavoro non aveva fornito prove adeguate delle violazioni disciplinari che giustificassero il licenziamento: la semplice affermazione di un inadempimento, senza una documentazione chiara e verificabile dei fatti, non è sufficiente per giustificare un licenziamento nel rispetto delle normative previste dal Codice Civile e dallo Statuto dei lavoratori.
La Corte ha anche valutato la procedura seguita per il licenziamento, concentrandosi sul rispetto delle norme procedurali: sebbene il datore di lavoro avesse inviato una lettera di licenziamento, viene sottolineato che non era stata data sufficiente opportunità al dipendente di difendersi, e che il procedimento disciplinare non era stato gestito in modo trasparente e corretto.
Proporzionalità della sanzione
Altro aspetto fondamentale della decisione riguarda la proporzionalità della sanzione.
La Corte ha osservato che, in base ai fatti esaminati, la gravità del comportamento attribuito al dipendente non giustificava un licenziamento, potendo l'azienda ricorrere a misure meno drastiche.
La decisione della Corte di Cassazione si inserisce nella linea di continuità con precedenti giurisprudenziali in tema di licenziamenti disciplinari e garanzie per i lavoratori.
La Corte ha richiamato, infatti, la normativa esistente riguardo alla legittimità del licenziamento, che impone al datore di lavoro di rispettare una procedura corretta e di provare la causa del licenziamento.
In particolare, l'ordinanza ha fatto riferimento alla consolidata interpretazione della legge sul lavoro che prevede che un licenziamento possa essere ritenuto legittimo solo se basato su motivi validi e oggettivi, supportati da prove adeguate.
La Corte, inoltre, ha confermato il principio secondo cui il licenziamento deve essere considerato come ultima ratio, ovvero una misura che può essere adottata solo dopo aver esaurito tutte le altre possibilità di sanzioni disciplinari meno gravi, come i richiami verbali o scritti, le sospensioni temporanee, o altre misure correttive.
Il principio della proporzionalità del licenziamento è anch'esso un elemento centrale di questa decisione, che si inserisce perfettamente nella linea tracciata dalle leggi sul lavoro italiane, in particolare dallo Statuto dei lavoratori, che tutela i diritti dei lavoratori contro licenziamenti arbitrari e non giustificati.
La Corte, dunque, ha ribadito che ogni atto di licenziamento deve essere proporzionato alla gravità del comportamento del lavoratore e che le prove addotte dal datore di lavoro devono essere concrete e verificabili.
Ma vediamo gli effetti dell’ordinanza n. 30701/2024.
Per l'azienda, la decisione degli Ermellini significa il riconoscimento dell'illegittimità del licenziamento: in pratica, questo implica che l’impresa dovrà risarcire il lavoratore, in quanto il licenziamento è stato ritenuto illegittimo e non conforme alla procedura prevista dalla legge, ma non reintegrarlo nel posto di lavoro come chiesto dalla parte resistente.
A tale proposito, gli Ermellini hanno evidenziato che, nonostante la modesta anzianità di servizio del lavoratore, l'indennità risarcitoria posta a carico del datore di lavoro ammonta a venti mensilità, in virtù del fatto che il provvedimento di recesso del datore interessa una mancanza poco rilevante di un dipendente con modesta anzianità.
Sintesi del caso |
Il caso ha coinvolto una società che ha licenziato un dipendente per inadempimenti disciplinari. Il lavoratore ha contestato il licenziamento come ingiustificato. |
Questione dibattuta |
La questione centrale riguardava la legittimità del licenziamento, in particolare se il datore di lavoro avesse fornito prove adeguate delle violazioni disciplinari e seguito correttamente la procedura di licenziamento. |
Soluzione della Corte di Cassazione |
La Corte di Cassazione ha ritenuto il licenziamento illegittimo, in quanto il datore di lavoro non aveva fornito prove sufficienti delle violazioni e non aveva seguito la procedura corretta, violando i diritti del lavoratore, stabilendo un risarcimento a favore del lavoratore pari a venti mensilità, ma non la reintegra nel posto di lavoro. |
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