Il reato di maltrattamenti in famiglia può essere escluso in considerazione delle qualità personali dei coniugi (nella specie, di formazione professionale e cultura superiori alla media) ed in particolare, se in caso di accesa e persistente conflittualità tra gli stessi, la moglie reagisce in maniera reattiva agli episodi di maltrattamento del marito, così venendo meno l’atteggiamento di passiva soggezione.
E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza n. 5158 depositata il 9 febbraio 2016, confermando la statuizione della Corte d’Appello in merito all'assoluzione di un uomo dai reati di maltrattamenti in famiglia e violenza privata nei confronti della moglie.
Con l’occasione, la Suprema Corte fa il punto sul reato di maltrattamenti in famiglia, precisando che – secondo ormai risalente e confermato orientamento giurisprudenziale – ai fini della sua configurabilità, il fatto materiale deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi in più atti, i quali determinino sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo, infliggendogli abitualmente tali sofferenze (si veda per tutte Corte di Cassazione, sentenza n. 8618 del 24.09.1996).
Perché possa configurarsi l’elemento materiale, pertanto, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di lesioni o percosse, poiché trattasi di reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, singolarmente, potrebbero anche non essere punibili (atti di infedeltà, umiliazione generica, ecc…) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi perseguibili solo a querela), ma che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Risulta, dunque, superato quell'orientamento nettamente minoritario secondo cui per integrare la fattispecie ex art. 572 c.p. è sufficiente l’esistenza di un “clima generalmente instaurato all'interno di una comunità, in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere di soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi” (Corte di Cassazione, sentenza n. 41142/2010).
Viceversa, la Corte ha affermato in via prioritaria che la compromissione del bene giuridico protetto non può verificarsi in presenza di semplici fatti che ledono o mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile (in tal senso Corte di Cassazione, sentenza n. 37019 del 26.09.2003 e più di recente, Corte di Cassazione, sentenza n. 30903/2015).
In altre parole – come più volte sottolineato dalla Corte Suprema - occorre che la pluralità di atti lesivi dei diritti fondamentali della persona sia inquadrabile all'interno di una cornice unitaria, caratterizzata dall'imposizione al soggetto passivo di uno stile di vita oggettivamente doloroso ed umiliante, precisando altresì la necessità del dolo unitario, per sussumere il fatto concreto nella fattispecie prevista dall'art. 572 c.p. (si veda Corte di Cassazione, sentenza n. 45037 del 22.12.2010; Corte di Cassazione, sentenza n. 1417 del 19.01.2011; Corte di Cassazione, sentenza n. 25183 del 25.06.2012).
Dolo che, nel reato di maltrattamenti in famiglia, si configura come volontà comprendente il complesso di fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e per quanto possibile penosa l’esistenza del familiare (Corte di Cassazione, sentenza n. 45547 del 28.12.2010). Trattasi dunque di dolo:
Ai principi sin qui enunciati, si è rifatta la Suprema Corte nel caso in esame, confermando la statuizione impugnata, laddove i giudici di merito, dopo aver esaminato i profili fattuali della condotta in contestazione, ne hanno escluso la sussumibilità nel reato di maltrattamenti in famiglia.
E ciò, specificamente, dopo aver inquadrato le risultanze processuali alla luce del contesto di relazioni familiari intercorse tra i coniugi, dotati entrambi di un livello di formazione professionale, cultura, condizioni sociali ed economiche ben superiori alla media, fra i quali si è venuto ad instaurare un rapporto di accesa conflittualità, tensione e radicata contrapposizione; causa di grave disagio soprattutto per la figlia minore, tanto da indurre il Presidente del Tribunale a disporre, nella relativa causa di separazione, l’affievolimento della potestà genitoriale di entrambi i genitori e l’affidamento della minore ai servizi sociali.
I giudici di merito hanno inoltre rilevato, da un lato, il temperamento irascibile e non incline alla moderazione dell’imputato, gli eccessi di collera anche per il più banale contrattempo, il ricorso a toni di particolare veemenza ed i comportamenti spesso trasmodanti nella maleducazione. Ma dall’altro, anche la costante capacità reattiva della moglie e l’assenza di supino atteggiamento rispetto alle inottemperanze anche verbali del marito, nel quadro di un rapporto protrattosi per anni e connotato da continui diverbi, incomprensioni e litigi maturati in ambito familiare, tra persone dotate entrambe di carattere molto passionale, con impossibilità di configurare un comportamento obiettivamente caratterizzato da tratti di abituale e sistematica prevaricazione, basato ossia su una posizione di passiva soggezione dell’una persona nei confronti dell’altra.
Ciò osta all'integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia, il quale richiede, viceversa, l’accertamento dello stato di soggezione ed inferiorità psicologica della vittima.
In tal senso si è costantemente espressa la giurisprudenza, secondo cui il reato di cui all'art. 572 c.p. può sussistere solo in quanto espressione di una condotta che attribuisca al suo autore una posizione di abituale e prevaricante supremazia a cui la vittima soggiace. In altre parole, se le violenze, offese ed umiliazioni sono reciproche, il reato non sussiste, poiché non può dirsi vi sia un soggetto che maltratta ed uno che è maltrattato (si veda Corte di Cassazione, sentenza n. 25138 del 2. 07.2010 e da ultimo Corte di Cassazione, sentenza n. 30903/2015).
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