Come si è espresso più volte il Consiglio di Stato, per mobbing (nella specie, presso enti pubblici) deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto. Comportamenti che si rivelino, oltretutto, espressivi di un disegno finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
In conseguenza di ciò, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi (in tal senso, per tutte Consiglio di Stato, sentenza n. 4105/2014; n.4135/2013; n. 1388/2012), ossia:
Quanto al danno da demansionamento, la giurisprudenza ha evidenziato che, sul piano probatorio - sebbene l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura contrattuale - il contenuto del preteso demansionamento vada comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può, quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma deve almeno allegare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice amministrativo, anche con i suoi poteri officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita. Ciò peraltro, sul presupposto che l'illecito di demansionamento non sia ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì soltanto nell'effettiva perdita delle mansioni svolte.
Analogo discorso vale per il danno da mobbing, laddove, è stato ribadito, il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (in questo senso, per tutte, Consiglio di Stato n. 1282/2015).
Con riguardo, poi, al danno - conseguenza, ossia allo specifico pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nelle suindicate categorie. Non è sufficiente, in altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere di allegare non solo gli elementi costitutivi del demansionamento o del mobbing, bensì, ex art. 2697 c.c., anche quelli del danno non patrimoniale che ne è derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.
Sono questi i principi ribaditi dal Tar per la Calabria, Sezione distaccata di Reggio Calabria, respingendo le ragioni di un dipendente dell’Arma dei Carabinieri, che assumeva di aver subito dal proprio datore pubblico, danni da mobbing, demansionamento e dequalificazione professionale, chiedendone la condanna al risarcimento.
Nel caso di specie, in particolare, alla luce delle circostanze emerse, il Collegio amministrativo ha riscontrato come il lavoratore ricorrente non avesse affatto adempiuto agli oneri probatori su di esso gravanti in materia.
Conclude difatti il Tar con sentenza n. 84 del primo febbraio 2017 – che grava sul lavoratore, ex art. 1218 c.c., l’onere di provare la condotta illecita ed il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sé riferibile.
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