Il datore di lavoro non è tenuto a rispondere ex se per la condotta di mobbing tenuta dai propri dipendenti, in mancanza di prove riguardo alla conoscenza, da parte sua, delle condotte lesive perpetrate nei confronti del lavoratore.
E’ quanto si apprende dalla lettura dell’ordinanza di Cassazione n. 16534 dell’11 giugno 2021, pronunciata a conferma della decisione con cui i giudici di secondo grado avevano rigettato la domanda avanzata da una lavoratrice, diretta ad accertare la condotta di mobbing dei superiori gerarchici nei suoi confronti e, di conseguenza, la responsabilità della società datrice di lavoro, con condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni subiti.
La Suprema corte ha rigettato tutti i motivi di doglianza promossi dalla dipendente, giudicandoli infondati alla luce del richiamato principio secondo cui “La responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. - non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo”.
Situazione, questa, non configuratasi nella vicenda di specie, atteso che la Corte territoriale aveva escluso, con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, che parte datoriale fosse stata messa a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente. Ciò posto, non poteva alla stessa rimproverarsi di non essere intervenuta nella rimozione del fatto lesivo.
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