Con l’accettazione della carica, l’amministratore di società acquisisce automaticamente il diritto a essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico a lui affidato.
Secondo i principi del sistema vigente, infatti, la legge presume che il contratto di amministratore societario sia oneroso.
In detto contesto, l’eventuale gratuità dell’incarico di amministratore di società può derivarsi solo da un’apposita previsione dello statuto societario ovvero da una clausola contrattuale ad hoc.
In ogni caso, non è ragionevole ritenere che il diritto a percepire il compenso rimanga subordinato a una richiesta dell’amministratore, rivolta alla società durante lo svolgimento del relativo incarico.
Sono questi i principi ribaditi dalla Corte di cassazione, nel testo dell’ordinanza n. 24139 del 3 ottobre 2018, pronunciata in accoglimento del ricorso presentato dall’ex amministratore di una Srl a cui la Corte d’appello aveva respinto la domanda volta ad ottenere il pagamento delle somme dovutegli per aver ricoperto la relativa carica per ben cinque anni.
I giudici di gravame, ribaltando la decisione di primo grado, avevano dato ragione alla appellante società dando rilievo ad un comportamento concludente asseritamente posto in essere dall’amministratore dal quale era stato desunto che lo stesso avesse rinunciato a qualsiasi compenso, in relazione al ruolo ricoperto.
A fronte di questa decisione, il manager aveva avanzato ricorso in sede di legittimità lamentando che la pretesa al compenso di amministratore non poteva dirsi subordinata ad una previa richiesta di liquidazione da parte dell’assemblea in costanza di carica, come, per contro, era stato ipotizzato nella sentenza impugnata.
La Sesta sezione civile della Cassazione ha ritenuto fondata detta doglianza, sottolineando come, per interpretare in termini di rinuncia un eventuale comportamento non sorretto da scritti o da parole, occorre che lo stesso faccia emergere una volontà oggettivamente e propriamente incompatibile con quella di mantenere in essere il diritto, nella specie il diritto al compenso.
Per contro, la Corte d’appello aveva erroneamente letto come rinuncia un comportamento meramente omissivo, costituto, come detto, dal fatto che il ricorrente non aveva chiesto il pagamento del suo compenso durante o svolgimento dell’incarico e neppure nell’anno successivo.
Questo - ha ricordato la Cassazione - quando la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che un comportamento solo omissivo non può integrare gli estremi di una rinuncia tacita, che sia valida ed efficace.
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