L’onere della prova del carattere ritorsivo di un licenziamento grava sul lavoratore. È una prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario la dimostrazione della inesistenza del motivo addotto a giustificazione del recesso.
A tal fine, dunque, è ben possibile che il giudice di merito valorizzi tutto il complesso degli elementi acquisiti in giudizio, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, consentano, nella loro valutazione unitaria e globale, di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.
Sono i principi ribaditi dai giudici di Cassazione nel testo della sentenza n. 11705 del 17 giugno 2020, pronunciata a conferma della declaratoria di nullità di un licenziamento per giusta causa intimato da una Spa ad un proprio dirigente, con conseguente ordine di reintegrazione in servizio dello stesso e condanna della società datrice al risarcimento del danno.
La Corte territoriale aveva ritenuto che il licenziamento operato nei confronti del dirigente fosse ingiustificato, pretestuoso e ritorsivo e ciò alla stregua delle risultanze probatorie, testimoniali e documentali, acquisite nel corso del giudizio.
A fronte della considerazione del non agevole assolvimento dell’onere della prova, da parte del lavoratore, i giudici di merito avevano osservato come il medesimo onere potesse essere conseguito anche attraverso l’utilizzazione di presunzioni.
E così era stato. In particolare, tra gli elementi valutati, un ruolo non secondario era stato attribuito all’inesistenza del diverso motivo addotto dal datore a giustificazione del recesso.
La sentenza impugnata, nel dettaglio, aveva tratto da fatti noti – quali l’infondatezza e la genericità degli addebiti, l’esistenza di un contenzioso in corso per una questione retributiva, la progressiva emarginazione del dirigente e la quasi totale sua esautorazione dalle funzioni ricoperte realizzatasi nel periodo immediatamente precedente il recesso – la conseguenza, del tutto ragionevole, che il licenziamento avesse avuto natura effettivamente ritorsiva.
Conclusioni, queste, condivise anche dagli Ermellini, secondo i quali la Corte territoriale aveva fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta.
La Suprema corte ha quindi rammentato come tale fattispecie costituisca l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e, pertanto, accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova, anche con presunzioni.
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