Anche nel caso in cui il trasferimento del lavoratore sia adottato in violazione dell’art. 2103, Codice Civile, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa. Le fattispecie, recentemente affrontate dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 10 febbraio 2022, n. 4404 e nella sentenza 7 marzo 2022, n. 7392, consentono al datore di lavoro di procedere con il licenziamento per giusta causa se il rifiuto al trasferimento manifestato dal dipendente violi i principi di buona fede e di correttezza.
Il potere di disporre il trasferimento del lavoratore dipendente trova la sua origine nei diritti costituzionalmente garantiti sanciti dall’art. 41 e sconta limiti e modalità di esercizio secondo le regole dell’art. 2103, Codice Civile, a mente del quale il prestatore di lavoro può essere trasferito da una unità produttiva all’altra solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Le predette ragioni, a fondamento della disposizione di trasferimento, devono, in sede giudiziale, essere provate dal datore di lavoro.
L’assenza dei presupposti concessi dalla norma configura una condotta illecita del datore di lavoro idonea a giustificare l’inottemperanza del lavoratore alla disposizione aziendale ex art. 1460, Codice Civile, sicché l’atto di trasferimento potrebbe essere affetto da nullità, con conseguente decadenza dei relativi effetti e di tutti gli eventuali successivi provvedimenti che impongano l’ottemperanza sino ad accertamento giudiziario.
Al riguardo però, come più volte esplicitato dalla giurisprudenza di legittimità, il rifiuto in malafede o aprioristico del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione rischia di sfociare nell’inadempimento del prestatore stesso per violazione dell’art. 2104, Codice Civile. In particolare, essendo il rapporto di lavoro un contratto a prestazioni corrispettive, ai sensi dell’art. 1460, comma 2, Codice Civile, la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo laddove il rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede.
Ciò, senza che il giudice di merito possa entrare nelle scelte organizzative dell’imprenditore.
Si rammenta che il trasferimento del dipendente consiste in un mutamento definitivo del luogo in cui la prestazione lavorativa viene abitualmente resa e che, a differenza della trasferta o del distacco, il trasferimento del luogo di lavoro, espressione del potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro, comporta una modifica definitiva della sede lavorativa. Solitamente la disposizione di trasferimento deve avvenire in forma scritta e, ove disciplinato, secondo le regole previste dalla contrattazione collettiva relativamente agli eventuali termini di preavviso. Ancorché dibattuto in dottrina, nella medesima disposizione aziendale di trasferimento o su successiva richiesta del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto ad indicare i motivi posti a fondamento del trasferimento.
L’ordinanza trae origine da una complessa vicenda giudiziaria. In riforma alla sentenza del Tribunale di primo grado, il giudice di seconde cure aveva giudicato illegittimo l’atto di trasferimento datoriale imposto per chiusura della sede produttiva ove era ubicato il lavoratore, ritenendo che l’impresa non aveva adeguatamente valutato e gestito le conseguenze derivanti dalla soppressione dell’unità organizzativa di appartenenza, con avallo del rifiuto posto in essere dal prestatore di lavoro e conseguente illegittimità del licenziamento.
Una prima sentenza della Corte di Cassazione rinviava alla Corte d’Appello di Potenza l’accoglimento delle doglianze del datore di lavoro per i primi due motivi del ricorso principale, per non essersi uniformata al consolidato principio giurisprudenziale secondo cui in tema di trasferimento del lavoratore deve essere accertata la corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa e che tale valutazione non può essere dilatata fino a comprendere il merito della scelta operata dall’imprenditore. Secondo gli Ermellini, infatti, il giudice di seconde cure era ricorso ad argomenti che andavano a sindacare le scelte organizzative dell’imprenditore. La nuova sentenza della Corte d’Appello di Potenza, 14 febbraio 2020, n. 207, già in sede di rinvio, ha respinto il ricorso del lavoratore evidenziando che non poteva essere messa in dubbio la sussistenza della riorganizzazione aziendale posta a base del mutamento della sede lavorativa imposto, confermando che la condotta del dipendente non fosse conforme ai principi di correttezza e buona fede. Il lavoratore ricorre nuovamente innanzi ai giudici della Corte di Cassazione che hanno ribadito l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede. Gli Ermellini specificano che la verifica del comportamento posto in essere dal lavoratore deve essere condotta, dal giudice di merito, tenuto conto delle circostanze tipiche della fattispecie e, in via esemplificativa e non esaustiva, riguardanti:
Le predette valutazioni dovranno, dunque, essere prese a riferimento per il giudizio di bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco, anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 41 della Carta Costituzionale.
Viene, altresì, evidenziato dai giudici della Suprema Corte che il comportamento del lavoratore deve – in ogni caso – essere improntato ai principi di buona fede e con effettiva disponibilità a prestare la propria opera presso la sede originaria.
Nel caso di specie, il comportamento posto in essere dal lavoratore è stato ritenuto non conforme ai predetti principi e strumentalizzato all’intento di vincere le resistenze datoriali nell’ambito di una trattativa economica, sicché viene confermato illegittimo il rifiuto posto dal lavoratore e sussistente la giusta causa di recesso.
Del medesimo avviso anche la sentenza della Corte di Cassazione 7 marzo 2022, n. 7392, secondo cui l’orientamento ormai consolidato prevede che nelle ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103, Codice Civile, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa, ma dovrà pur sempre essere valutato in relazione alle circostanze concrete, onde verificare se risulti contrario a buona fede.
Ciò assunto, anche nel caso in cui il trasferimento sia disposto in assenza delle comprovate ragioni organizzative, produttive o tecniche previste dalla norma, il rifiuto del lavoratore non deve – sulla base delle circostanze concrete – essere contrario a buona fede, sicché laddove il prestatore di lavoro non prenda possesso presso la nuova sede di lavoro, può dirsi legittimo il recesso per giusta causa. Nella fattispecie, il licenziamento è stato, comunque, ritenuto illegittimo per avere il datore di lavoro omesso il contraddittorio rispetto alle tardive giustificazioni presentante dal lavoratore al procedimento disciplinare intrapreso, talché la condanna dell’impresa, avente natura meramente procedimentale, ha portato il giudice all’applicazione della c.d. tutela indennitaria in luogo di quella reintegratoria.
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