Licenziamento disciplinare
Pubblicato il 12 febbraio 2015
Il licenziamento costituisce un atto unilaterale adottato dal datore di
lavoro per risolvere il rapporto di lavoro.
Nella presente sezione
vengono esaminate le novità previste dallo schema di decreto di prossima
emanazione e attuativo della L. n. 183/14 in materia di licenziamento
disciplinare nelle aziende con più di 15 dipendenti. Per cogliere
appieno la portata del decreto occorre muovere dalla disciplina
pregressa, illustrando per sommi capi le regole che presidiano il
licenziamento disciplinare.
Il licenziamento è la sanzione espulsiva che viene irrogata dal datore
di lavoro al dipendente; deve essere irrogato in forma scritta e deve
contenere le ragioni della decisione dell’imprenditore. Quando tali
ragioni attengono alla menomazione del rapporto fiduciario ricorre la
figura del
licenziamento disciplinare.
Il licenziamento disciplinare può essere motivato da giusta causa o da
giustificato motivo c.d. soggettivo.
Il comune denominatore tra giusta causa e giustificato motivo è
costituito da un inadempimento agli obblighi contrattuali da parte del
lavoratore. La distinzione invece corre sulla gravità della violazione
nel senso che la giusta causa postula un inadempimento di
significatività tale da precludere la prosecuzione anche provvisoria
del rapporto di lavoro.
Allorché il datore di lavoro decida di licenziare il dipendente per
motivi disciplinari è comunque tenuto a rispettare le
regole
procedurali dell’art. 7 della L. n. 300/70.
Entro il termine di
60 giorni dalla notifica del licenziamento, il
lavoratore deve
impugnare l’atto di recesso. Nei successivi
180 giorni
il lavoratore
deve depositare ricorso giurisdizionale e formulare
istanza di conciliazione.
L’onere di provare l’effettiva sussistenza della condotta tenuta dal
lavoratore, e posta alla base del licenziamento disciplinare,
ricade
sul datore di lavoro.
Originariamente l’art. 18 della L. n. 300 cit. prevedeva che
l’illegittimità del licenziamento per assenza di giusta causa o
giustificato motivo doveva essere sanzionata con la reintegra del
lavoratore nel posto di lavoro e il risarcimento del danno nella misura
non inferiore a cinque mensilità di retribuzione oltre al versamento
degli oneri contributivi. Al Giudice era lasciata ampia discrezionalità
nel valutare l’illegittimità dell’atto di recesso e, comunque, la
reintegra nel posto di lavoro costituiva sanzione necessaria
all’accertamento dell’illegittimità dell’atto di recesso. Il sistema
era denominato di
property rules, perché il datore di lavoro doveva
ricostituire integralmente la posizione del lavoratore come se costui
non avesse mai subito alcun atto illecito.
L’art. 30 comma 3 della L. n. 183/10 (c.d. Collegato lavoro) ha
limitato il potere di valutazione discrezionale del giudice,
introducendo il principio di tipizzazione, da parte dei contratti
collettivi, della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.
Nelle intenzioni del Legislatore il Giudice doveva valutare l’effettiva
sussistenza del fatto contestato e la proporzionalità della sanzione
espulsiva irrogata, ma tale valutazione avrebbe dovuto essere guidata
dalle disposizioni dei contratti collettivi, ai quali era attribuita la
funzione di tipizzare gli illeciti.
La portata del precetto normativo è stata tuttavia ridimensionata dalla
Suprema Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 07/10/2013, n.
22791), la quale ha attribuito valenza non vincolante alla previsioni
collettive, di modo che il Giudice avrebbe avuto comunque il compito di
verificare se l’illecito tipizzato dal contratto fosse o meno conforme
alla nozione di giusta causa.
La L. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero) ha riaffermato il principio che
il licenziamento disciplinare del lavoratore può avvenire solo per
giusta causa o per giustificato motivo. La riforma tuttavia ha sancito
il primo
passaggio dal sistema di property rules a quello di liability
rules, in cui il lavoratore viene ristorato non mediante la
ricostituzione della posizione antecedente all’illecito, ma solo con
misure di natura pecuniaria. I fautori della riforma ritengono che tale
modello sia più aderente al mercato di lavoro europeo.
La reintegra nel quadro della legge
viene limitata alle ipotesi in cui
licenziamento disciplinare si basi su:
- un fatto in realtà non sussistente perché non veritiero;
- un fatto realmente accaduto, ma punito dai contratti collettivi di
lavoro con sanzione non espulsiva.
Il fatto è inteso in un’accezione non meramente materiale (e cioè come
accadimento puramente fenomenico della realtà), ma giuridica. Ciò
significa che il fatto va valutato in una dimensione sia oggettiva sia
soggettiva e quindi inteso come fatto disciplinarmente rilevante,
inclusivo della imputabilità e del dolo, della colpa, dell’intensità
dell’elemento volitivo. La giurisprudenza di merito e la dottrina
dominante sono favorevoli a tale interpretazione (cfr. Trib. Bologna
15.10.2012, Tribunale di Taranto del 3.6.2013; Tribunale di Palmi del
24.4.2013. Per una disamina più approfondita cfr. Valerio Speziale
“La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza”).
Diverso orientamento è stato espresso dalla Suprema Corte a ridosso
dell’emanazione della legge delega n. 183/14 (Jobs Act). Secondo i
Giudici di legittimità
“la reintegrazione trova ingresso in relazione
alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto
a fondamento del licenziamento”. La verifica in sostanza si risolve e
si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso
fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni
discrezionali. (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 06-11-2014, n.
23669).
Comunque,
insieme alla reintegra per le ipotesi sopra riportate, la
legge n. 92 cit. ha previsto che il giudice condanni il datore di
lavoro
al risarcimento del danno parametrato in misura massima di 12
mensilità, detratto l’
aliunde perceptum (quanto il lavoratore abbia
percepito in conseguenza dello svolgimento di altro rapporto di lavoro)
e l’
aliunde percipiendum (quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire
attivandosi per reperire un’altra occupazione) e comunque per un’entità
non inferiore a 12 mensilità.
Al risarcimento si accompagna la condanna
al versamento dei contributi dal giorno del licenziamento alla
reintegra, maggiorati degli interessi legali, ma senza più alcuna
sanzione per omessa o ritardata contribuzione.
Al lavoratore è
riconosciuta la facoltà di optare per la risoluzione del rapporto di
lavoro e di ottenere il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Il definitivo passaggio al sistema di liability rules viene sancito
dallo schema di decreto attuativo sul contratto a tutele crescenti.
Infatti l’art. 3 stabilisce che il fatto posto a fondamento del
licenziamento disciplinare deve essere inteso in senso puramente
materiale e che esulano indagini basate sul canoni di proporzionalità
della sanzione.
Una tale impostazione ha per conseguenza che anche il
fatto pretestuoso o di scarso rilievo, purché esistente, esclude la
reintegra. Il decreto nulla dice in merito al fatto materiale
sussistente, ma sanzionato dai contratti collettivi con pena non
espulsiva. Si propende per un’interpretazione che faccia salvo il
regime introdotto sul punto dalla L. n. 92 cit. e che quindi prevalga
la disciplina contrattuale.
Tirando le fila secondo gli scriventi l’accezione materialistica del
fatto apre la stura a licenziamenti facili se non facilissimi e rende
la reintegra in materia disciplinare un istituto del tutto eccezionale.
Tuttavia per principi di civiltà giuridica si deve pur sempre ritenere
che il fatto materiale postuli pur sempre un disvalore giuridico,
altrimenti si arriverebbe a licenziare anche perché il lavoratore
ometta un saluto di cortesia al proprio datore di lavoro.