Licenziamento della lavoratrice madre
Pubblicato il 29 gennaio 2015
La legge appronta una gamma di tutele per i genitori nelle diverse fasi della gravidanza e dei primi anni di vita del bambino.
La disciplina di riferimento è contenuta nel
D.lgs. n. 151/01 (testo
unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità
e paternità).
Tra le tutele spicca il congedo di astensione obbligatoria e
facoltativa, nonché la facoltà di avvalersi dei riposi retribuiti di
periodo di congedo per le eventuali malattie del figlio e, soprattutto,
la previsione contenuta nell’art. 54 del T.U. n. 151 cit., che sancisce
il
divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del
periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
Con tale divieto il Legislatore ha inteso garantire alla lavoratrice
madre, con riguardo ad interessi costituzionalmente rilevanti (art. 31
Cost., comma 2, e art. 37 Cost., comma 1), la conservazione, durante
l’indicato periodo, del posto di lavoro, in connessione con lo stato di
gravidanza e puerperio, predisponendo una tutela ampia ed incisiva.
L’art. 54 comma 5 del T.U. n. 151 cit. qualifica
nullo il licenziamento
irrogato in violazione delle disposizioni legislative in materia di
tutela della maternità e paternità. Ne segue pertanto l’applicazione del
regime relativo alla cd.
tutela reintegratoria piena come riformato
dalla
L. n. 92/12 (c.d. riforma Fornero).
Tale tutela prevede il diritto di:
- essere reintegrata nel posto di lavoro;
- risarcimento del danno per il periodo successivo al licenziamento e
fino all’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito da altra
occupazione (il risarcimento non può comunque essere inferiore nel
minimo di cinque mensilità di retribuzione);
- ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali
per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della
reintegra;
- esercitare il c.d. diritto di opzione, ossia scegliere fra la
reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della
retribuzione globale di fatto.
Il divieto di licenziamento è presidiato anche da sanzione
amministrativa con importo compreso da € 2.582 e € 10.032 e, per
espressa disposizione di cui all’art. 54 comma 8 del T.U. n. 151, non è
ammessa procedura di diffida ex art. 13
D.lgs. n. 124/04 sicché la
sanzione, eventualmente applicata dal personale ispettivo della DTL, non
è suscettibile di riduzione.
Il divieto di licenziamento soffre di alcune deroghe previste dall’art. 54 comma 3, che si sostanziano nell’ipotesi di:
1. colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
2. cessazione dell’attività dell’azienda cui è addetta la lavoratrice;
3. ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata
assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del
termine;
4. esito negativo della prova.
L’operatività del divieto di licenziamento è condizionato dalla
sussistenza dello stato di gravidanza il quale generalmente viene
rappresentato al datore di lavoro dalla lavoratrice mediante esibizione
di idonea certificazione medica.
Ci si chiede allora se il divieto operi comunque anche se il datore di
lavoro sia ignaro della circostanza perché sottaciuta dalla lavoratrice.
L’art. 54 del T.U. n. 151 prescrive
che il divieto di licenziamento
opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio.
Ciò significa che ai fini del divieto è essenziale solo ed
esclusivamente che sussista lo stato di gravidanza essendo ininfluente
sotto tale profilo la circostanza che il datore di lavoro ne sia stato
portato a conoscenza.
Vero è che l’art. 54 comma 2 prevede l’onere per la lavoratrice di
presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti
lo stato di gravidanza. Tuttavia la stessa disposizione correla
l’adempimento dell’incombenza all’ipotesi in cui la lavoratrice sia
stata licenziata durante il periodo coperto dalla tutela.
La certificazione risponde ad una mera funzione probatoria e dunque non è
costitutiva per il divieto di licenziamento, il quale opera ex lege. La
giurisprudenza sul punto è pacifica (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro,
20/07/2012, n. 12693; Cass. civ. Sez. lavoro, 01/12/2010, n. 24349; per
l’indirizzo di merito cfr. Trib. Pavia Sez. lavoro Sent., 16/01/2009;
Trib. Roma, 10/04/2003). La prova dello stato di gravidanza può peraltro
essere assolta con mezzi diversi (Cass. civ. Sez. lavoro, 21/08/2004,
n. 16505) e l’invio del certificato può trovare un equipollente nella
conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro
(Cass. civ. Sez. Unite, 04/03/1988, n. 2248).
In ragione di quanto si possono trarre le seguenti conclusioni.
Per l’operatività del divieto di licenziamento di cui all’art. 54 T.U.
n. 151 cit. non è necessario che la lavoratrice presenti il certificato
medico al datore di lavoro (Cass. civ. Sez. lavoro, 06/07/2002, n.
9864).
Il licenziamento irrogato in connessione con lo stato di
gravidanza della lavoratrice resta nullo anche se il datore di lavoro
non fosse a conoscenza della circostanza. Appare logico che,
successivamente all’intimazione del licenziamento, sia interesse della
lavoratrice esibire il predetto certificato o, in mancanza,
rappresentare al datore di lavoro la predetta circostanza. Comunque il
licenziamento, in quanto nullo, comporta la prosecuzione del rapporto di
lavoro e l’obbligo per la parte datoriale di corrispondere le relative
retribuzioni. Per quanto riguarda invece il regime delle sanzioni
amministrative si ritiene che le stesse siano applicabili nell’ipotesi
in cui sia raggiunta la prova che il datore di lavoro, all’atto del
licenziamento, fosse a conoscenza dello stato di gravidanza, giacché
diversamente verrebbe meno il profilo della colpa