No al licenziamento per la dipendente che posta critiche verso l'azienda, datrice di lavoro, attraverso i social network.
La fattispecie trattata dai giudici di Cassazione, nella sentenza n. 13799 del 31 maggio 2017, riguarda un licenziamento intimato ad una dipendente da parte della datrice di lavoro per avere la prima usato frasi diffamatorie sui social network nei confronti della seconda.
Dichiarata, dalla Corte d’appello, l’illegittimità del licenziamento con condanna della società a reintegrare la lavoratrice e a risarcirle il danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento al saldo, la società ha presentato ricorso in cassazione.
Il principale punto di doglianza sollevato dalla ricorrente in cassazione è la mancata applicazione, nella sentenza di secondo grado, del principio contenuto nel nuovo articolo 18, commi 4 e 5. L. n. 300/70, che distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o giustificato motivo oggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria “solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”.
Ma i giudici, nella sentenza 13799 del 31 maggio 2017, ritengono il motivo infondato avendo chiarito, con sentenza 20540/15, che il fatto contestato va ritenuto insussistente quando comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, cosicché in tale ipotesi si applica la reintegra nel posto di lavoro.
In una successiva sentenza – n. 18418/16 – si specifica ulteriormente che l’assenza di illiceità di un fatto materiale sussistente rientra nell’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, che prevede la reintegra, mentre la minore o maggiore gravità del fatto contestato e sussistente non consente l’applicazione della cosiddetta tutela reale, implicando un giudizio di proporzionalità.
Nel caso concreto, è stata accertata la sostanziale non illiceità del fatto oggetto di licenziamento a cui non è seguita una adeguata censura da parte della ricorrente, con conseguente rigetto del ricorso da questa proposto.
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