L’inosservanza delle norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. n. 81/2008), comporta il risarcimento del danno biologico subìto dal lavoratore, se quest’ultimo è stato adibito a mansioni incompatibili con le proprie condizioni fisiche.
Così la Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 7584 del 18 marzo 2019.
Nel caso di specie, un lavoratore aveva accusato la società per la quale lavorava di aver aggravato la sua patologia agli arti inferiori, nonché di aver alterato i disturbi psichici sofferti dal ricorrente, in quanto il datore di lavoro non aveva osservato le norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. n. 81/2008). In particolare, per effetto delle mansioni svolte, ed in particolare del mantenimento della posizione eretta, il dipendente aveva subìto un aggravamento della patologia a carico del ginocchio destro e del disturbo dell'adattamento.
In sentenza di primo grado, il giudice ha accolto parzialmente la domanda del lavoratore, condannando la società al pagamento a titolo di risarcimento del danno biologico, della somma di euro 17.335,50 oltre accessori di legge. Inoltre, è stato accertato che le assenze per malattia del lavoratore, tra dicembre 2005 e dicembre 2009, non potevano concorrere al computo del periodo di comporto nella misura di 144 giorni, che quindi andavano detratti per il calcolo dello stesso periodo.
La società impugnava la pronuncia del giudice del lavoro locale e ricorreva alla Corte d’Appello. I giudici torinesi hanno dato nuovamente ragione al lavoratore. L’importo riconosciuto a titolo di danno biologico da incapacità temporanea risultava in linea con le c.d. “tabelle milanesi”, avendo ritenuto la società responsabile ex art. 2087 c.c. dell'aggravamento delle condizioni di salute del ricorrente.
Infatti, in relazione alle patologie sofferte a carico degli arti inferiori, il collegio medico giudicò il dipendente non idoneo per 12 mesi alle mansioni di portalettere, ma "idoneo a mansioni interne non comportanti stazione eretta prolungata o deambulazione protratta". Tali prescrizioni, ancorché non particolarmente dettagliate, indicavano la necessità di adibire il dipendente non solo a mansioni interne di ufficio ma, soprattutto, a mansioni che gli consentissero di restare seduto per la gran parte del tempo lavorativo e che non comportassero, se non in via del tutto occasionale e per un tempo assai limitato, la stazione eretta e la movimentazione degli arti.
Tali prescrizioni mediche, però, sono state disattese dalla società, poiché le mansioni effettivamente svolte hanno comportato anche il mantenimento della stazione eretta, frequenti spostamenti ed un sovraccarico agli arti inferiori.
La società decideva comunque di impugnare la sentenza di secondo grado e di ricorrere alla Corte di Cassazione.
I giudici della Suprema Corte rigettavano il ricorso proposto dalla società. Secondo gli ermellini, la mancata corretta e compiuta ottemperanza alle apposte prescrizioni mediche, comunque evidentemente a conoscenza di parte datoriale (che non risultava averla mai univocamente negata), comporta la colposa inadempienza degli obblighi contrattuali derivanti dal categorico precetto normativo di cui all'art. 2087 c.c.
Ciò comporta la realizzazione della responsabilità risarcitoria in difetto di adeguata prova liberatoria ex art. 1218 c.c. da parte datoriale. Infatti, per evitare la responsabilità risarcitoria, il datore di lavoro deve provare di aver adottato tutte le misure possibili per evitare il danno: non è sufficiente quindi provare l’adozione solo parziale di cautele, quali le misure di protezione.
In definitiva, se il datore di lavoro non prova di aver ottemperato a tutti gli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 81/2008, ed il lavoratore, al contrario, prova di aver subìto un’alterazione dell’integrità psicofisica, il giudice non può che confermare il risarcimento del danno.
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