La Corte Costituzionale boccia il sistema a tutele crescenti

Pubblicato il 02 luglio 2020

Ne da notizia l'Ufficio Stampa della Corte Costituzionale con il comunicato pubblicato il 25 giugno 2020, secondo cui i Giudici delle Leggi sono tornati a pronunciarsi sull'illegittimità costituzionale dei criteri di determinazione dell'indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo previsti dal Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23. In particolare, la questione sollevata dai Tribunali di Bari e di Roma verte sull'inciso della quantificazione rigida ed automatica dell'indennità spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo per vizi procedurali e formali. In attesa della pubblicazione delle motivazioni addotte, la sentenza in trattazione rievoca, certamente, le ragioni di diritto della precedente pronuncia del 26 settembre 2018, n. 194, a mente della quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, sia nel testo originario che modificato dall'art. 3, comma 1, Decreto Legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella Legge 9 agosto 2018, n. 96, limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio".  

 

Licenziamento per vizi formali e procedurali

Come noto, il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, emanato su delega dell'art. 1, comma 7, lett. c), Legge 10 dicembre 2014, n. 183, secondo cui si rimetteva al Governo la previsione, per le nuove assunzioni, di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con stretta correlazione all'anzianità di servizio e relativo indennizzo certo e crescente, ha modificato i termini dell'indennità di licenziamento illegittimo spettante al lavoratore per vizi formali e procedurali.

La fattispecie si colloca, dunque, nei vizi formali di illegittimità riconducibili agli obblighi di motivazione ex art. 2, comma 2, Legge 15 luglio 1966, n. 604, ovvero procedurali previsti dall'art. 7, Legge 20 maggio 1970, n. 300. Secondo il dettato normativo dell'art. 4, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, accertata l'illegittimità dell'atto di recesso datoriale per i motivi appena citati, "il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità", salvo che il giudice non ritenga applicabili le tutele di cui agli artt. 2 e 3 del medesimo Decreto Legislativo.

Altresì, in applicazione dell'art. 9, comma 1, l'indennità, legata esclusivamente all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, è dimezzata per i datori di lavoro non aventi i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi 8 e 9, Legge 20 maggio 1970, n. 300, e non può, in ogni caso, superare il limite delle sei mensilità.

 

La Sentenza n. 194/2018, questione di legittimità

Sin dall'emanazione del decreto legislativo in trattazione, dubbi vi erano sulla conformità delle previsioni normative introdotte con il c.d. contratto a tutele crescenti relativamente ai principi sovrani della Carta Costituzionale, in ordine sia alla data spartiacque del 7 marzo 2015, volta a generare una evidente disparità di trattamento tra lavoratori assunti pre-Jobs Act e post-Jobs Act, che alle modalità predefinite di quantificazione del danno risarcibile ed alla conseguente estromissione di discrezionalità del giudice adito.

Non v'è, dunque, da stupirsi che, con ordinanza del 26 luglio 2017, il Tribunale ordinario di Roma, Sez. Lavoro, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lett. c) della Legge 10 dicembre 2014, n. 183, e degli artt. 2, 3 e 4, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23. In particolare, il giudice a quo rappresentava che la tutela applicabile alla fattispecie era costituita dagli artt. 3, comma 1, e 4 del predetto Decreto Legislativo.

Rigettata, per genericità dell'ordinanza di rimessione, la questione vertente sull'art. 1, comma 7, lett. c), Legge 10 dicembre 2014, n. 183, e per inammissibilità, in difetto di rilevanza, le questioni relative agli artt. 2, 3, commi 2 e 3, 4, Decreto Legislativo 4 marzo 2020, n. 23, la Consulta circoscrive la questione di conformità al solo art. 3, comma 1, secondo cui "salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità" (limiti innalzati ad opera dell'art. 3, comma 1, Decreto Legge 12 luglio 2018, n. 87, precedentemente e rispettivamente quattro e ventiquattro mensilità).      

 

La Sentenza n. 194/2018, conformità ai principi costituzionali

In ragione della deteriore ed ingiustificabile difformità di trattamento tra i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e quelli assunti precedentemente, il giudice a quo denuncia la violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, Cost., deducendo che l'art. 3, comma 1, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, è meno favorevole rispetto alla previsione dell'art. 18, Legge 20 maggio 1970, n. 300. Invero, il giudice adito, nel denunciare l'asserita irragionevolezza del deteriore trattamento dei nuovi assunti, pone la questione in ordine al regime temporale d'applicazione costituito, sostanzialmente, dalla data di assunzione. In tal senso, la Corte, pur rilevando la difformità di trattamento, ritiene che la sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza, potendo costituire il fluire del tempo un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche. Per tale ragione, deve ritenersi che spetta alla discrezionalità del legislatore delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme.

Tra le altre, risulta fondata la questione sollevata in ordine alla quantificazione dell'indennità spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo, quale tutela rigida ed inadeguata che viola il diritto al lavoro (art. 4, comma 1, Cost.), quale garanzia di non estromissione ingiusta e irragionevole dal posto di lavoro ovvero di subire un licenziamento arbitrario, ed il diritto alla tutela del lavoro (art. 35, comma 1, Cost.), quale principio di necessaria giustificazione del recesso.

Il combinato disposto delle tutele costituzionali sopra menzionate si sostanzia nel riconoscere, tra l'altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono il disequilibrio di fatto esistente al contratto di lavoro, quale accordo giuridico a forte coinvolgimento della persona umana e, come tale, meritevole di essere annoverato tra i diritti fondamentali a cui il legislatore deve apprestare specifiche tutele. In tale ambito, non deve intendersi preclusa la scelta del legislatore di approntare un meccanismo anche solo meramente risarcitorio-monetario, purché siano rispettati i principi di ragionevolezza.

Alla luce del ragionamento della Corte, la quantificazione dell'indennità, quale risarcimento riconosciuto al lavoratore per il danno causato dal licenziamento illegittimo, interamente prestabilito dal legislatore sul singolo criterio dell'anzianità di servizio, è connotata da caratteristiche di rigidità tali da predeterminare e standardizzare, entro i limiti predefiniti, la liquidazione forfettaria del danno derivante al lavoratore dall'illegittima estromissione dal posto di lavoro. Il meccanismo, così formulato, preclude al giudicante la discrezionalità circa l'effettiva quantificazione del danno, contrastando, di fatto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse. Ciò non toglie che la discrezionalità del giudice possa essere tracciata all'interno dei confini definiti dal legislatore con una modulazione che preveda una soglia minima ed una massima.

Ma v'è di più.

Il predetto sistema di calcolo, secondo cui l'indennità risarcitoria è strettamente legata alla sola indennità di servizio, contrasta con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo "dell'inidoneità dell'indennità medesima a costituire un adeguato ristoro al concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente".

In conclusione, il denunciato art. 3, comma 1, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui determina l'indennità in "un importo pari a due mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio", non realizza un equilibrato contemperamento della libertà di organizzazione dell'impresa e della tutela del lavoratore licenziato.

In parziale accoglimento della questione sollevata, dopo ampia disamina, la Consulta dichiara costituzionalmente illegittimo l'art. 3, comma 1, limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio".

 

Vizi formali e procedurali, tutele crescenti bocciate dalla Consulta

Con Comunicato dell'Ufficio Stampa della Corte Costituzionale del 25 giugno 2020, perviene l'ennesima bocciatura del sistema a tutele crescenti. Invero, nell'attesa della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, si rende noto che l'inciso "di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio", di cui all'art. 4, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, quale criterio rigido ed automatico legato esclusivamente all'anzianità di servizio, è stato dichiarato incostituzionale.

 

 

QUADRO NORMATIVO

Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23

Corte Costituzionale - Comunicato stampa del 25 giugno 2020

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