Affinché si realizzi la fattispecie di reato commesso per non aver versato l’Iva, prevale l’importo del debito valorizzato all’interno della dichiarazione e non quello emergente dalle scritture contabili. Dunque è condannato per evasione Iva l’imprenditore che ha omesso il versamento superando la soglia di punibilità anche se lo ha fatto per un errore del professionista sulla dichiarazione.
È quanto conferma la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12378 del 17 aprile 2020.
L’imprenditore, nonostante risultasse soccombente sia in primo che in secondo grado di giudizio, impugnava la sentenza dei giudici di merito ritenendo che il debito Iva non versato, in realtà, fosse frutto di un errore del professionista dimostrato dalle scritture contabili.
Tuttavia, la Corte d’Appello si è limitata ad affermare che il legale rappresentante risultava comunque responsabile in quanto aveva sottoscritto la dichiarazione Iva.
La Suprema Corte conferma l’orientamento delle precedenti sentenze, ritenendo che ai fini dell’integrazione del reato di omesso versamento dell’Iva, è rilevante il debito risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quello desumibile dalle scritture contabili.
Sul punto, il sistema sanzionatorio prevede la reclusione da sei mesi a due anni per chiunque non versi l’Iva, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo per importi superiori a 250.000 euro per ciascun esercizio.
In conclusione, affermano gli ermellini, non rileva neppure, per ragioni di tipicità, che se l'importo relativo all'Iva sia stato effettivamente incassato.
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