In materia di espropri per pubblica utilità, il sistema indennitario risulta attualmente agganciato al valore venale del bene, già previsto quale criterio base di indennizzo sancito dall’articolo 37, comma 1, del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. n. 327/2001), come modificato dall’articolo 2, comma 90, della Legge n. 244/2007.
Non è comunque venuta meno, ai fini indennitari, la distinzione tra suoli edificabili e non edificabili, imposta dalla disciplina urbanistica in funzione della razionale programmazione del territorio, anche ai fini della conservazione di spazi a beneficio della collettività e della realizzazione di servizi pubblici.
Così, l’inclusione dei suoli nell’uno o nell’altro ambito va effettuata in ragione esclusivamente del criterio discretivo dell’edificabilità legale, posto dall’articolo 5-bis, comma 3, del Decreto legge n. 333/1992, criterio in base al quale un’area va ritenuta edificabile solo quando la stessa risulti classificata tale al momento della vicenda ablativa degli strumenti urbanistici.
Per contro, le possibilità legali di edificazione vanno escluse tutte le volte in cui per lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità…).
Dette classificazioni, infatti, arrecano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.
Queste precisazioni sono state ribadite dalla Prima sezione civile di Cassazione nel testo della sentenza n. 4608 depositata il 22 febbraio 2017.
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