Consulta: sì a imposta di registro come imposta d’atto

Pubblicato il 22 luglio 2020

La Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 20 del DPR n. 131/1986 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), sollevate dalla Corte di cassazione, Quinta sezione civile, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

La disposizione di riferimento – si rammenta - era stata da ultimo ritoccata dall’art. 1, comma 87, lettera a), della Legge n. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018), e dall’art. 1, comma 1084, della Legge n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019).

Corte costituzionale: legittima la norma su applicazione imposta 

La stessa era stata censurata nella parte in cui dispone che, nell’applicazione dell’imposta di registro “secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, si devono prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Secondo il giudice rimettente, la preclusione della valutazione degli elementi extratestuali e degli atti collegati contenuta in tale formulazione, contrasterebbe sia con l’art. 53 Cost., sotto il profilo dell’effettività dell’imposizione, in quanto lesiva del principio della prevalenza della sostanza sulla forma, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza e della ragionevolezza.

Imposta di registro. Ok ad applicazione secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto

La Consulta, con sentenza n. 158 depositata il 21 luglio 2020, ha giudicato entrambe le questioni non fondate, in quanto basate sull’erroneo assunto secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, i fatti espressivi della capacità contributiva - indicati negli effetti giuridici desumibili, anche aliunde, dalla causa concreta del negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione - sarebbero i soli costituzionalmente compatibili con i parametri costituzionali evocati.

Un assunto che secondo i giudici costituzionali non può invece essere accolto, posto che tali parametri, sul piano della legittimità costituzionale, “non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, «salvo quanto disposto dagli articoli successivi» dello stesso testo unico”.

Difatti, non è manifestamente arbitrario che il legislatore abbia ribadito la ratio dell’imposta di registro in sostanziale conformità alla sua origine storica di imposta d’atto”, in caso di collegamento negoziale.

No a interpretazione giurisprudenziale basata su causa reale

In tale contesto, l’interpretazione evolutiva, patrocinata dal rimettente, del menzionato art. 20 del DPR n. 131/1986, incentrata sulla nozione di “causa reale”, provocherebbe diverse incoerenze nell’ordinamento.

Si consentirebbe, infatti, all’amministrazione finanziaria, sia di operare in funzione antielusiva, senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale a favore del contribuente, sia di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, impedendo, di fatto, al medesimo contribuente, ogni legittima pianificazione fiscale.

Conclusivamente, la disciplina censurata è stata ritenuta non in contrasto né con il principio di capacità contributiva, né con quelli di ragionevolezza ed eguaglianza tributaria.

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