La Consulta è tornata a pronunciarsi sull’art. 20 del DPR n. 131/1986 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), come modificato dall’art. 1, comma 87, lettera a), numeri 1) e 2), della Legge n. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018), e dall’art. 1, comma 1084, della Legge n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019).
Sulla norma, si rammenta, la Corte costituzionale aveva già dichiarato infondate le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione sotto i profili dell’effettività dell’imposizione, dell’eguaglianza e della ragionevolezza (sentenza n. 158/2020).
Nel testo della sentenza n. 39 del 16 marzo 2021, i giudici costituzionali si sono invece occupati delle questioni sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna.
La disposizione è stata censurata, in primis, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
In subordine, è stata sollevata questione di incostituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 81, 101, 24 della Costituzione, dell’art. 1, comma 1084, della Legge n. 145/2018, in forza del quale l’art. 1, comma 87, lettera a), della Legge n. 205/2017 “costituisce interpretazione autentica” del medesimo art. 20 del TU sull'imposta di registro.
Secondo il giudice rimettente, in particolare, il legislatore, nel definire tale ultima previsione come di “interpretazione autentica”, avrebbe in realtà imposto la retroattività della norma “nella sua nuova ridotta portata”, in violazione di plurimi parametri costituzionali.
I giudici costituzionali, in primo luogo, hanno ritenuto che le questioni inerenti alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost. fossero manifestamente infondate, in quanto prive di argomenti sostanzialmente nuovi rispetto a quelle già dichiarate non fondate con la pronuncia del 2020.
E infondate sono state giudicate, altresì, le questioni formulate in via subordinata.
Secondo la Consulta, la legittimità di un intervento legislativo che, come quello in esame, attribuisce forza retroattiva a una genuina norma di sistema, non è contestabile nemmeno quando esso sia determinato dall’intento di rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza che si è sviluppata in senso divergente dalla linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore.
Nel caso di specie, ciò che doveva essere considerato non era, quindi, “l’indirizzo giurisprudenziale maturato nel brevissimo lasso temporale intercorrente tra i due interventi normativi”, bensì “l’intera, decennale, vicenda che ha interessato la complessa questione dell’applicazione dell’imposta di registro, caratterizzata, come questa Corte ha evidenziato nella sentenza n. 158 del 2020, da uno stratificarsi di interpretazioni, che la giurisprudenza ha sviluppato anche in risposta alle varie forme in cui l’ordinamento si andava evolvendo per volontà del legislatore”.
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