Chi si impossessa di un telefono cellulare altrui, oggetto di smarrimento, risponde del reato di furto e non di appropriazione di cosa smarrita, depenalizzato dal Decreto legislativo n. 7/2016.
Difatti, il telefonino costituisce un bene che conserva, anche in caso di smarrimento, chiari segni del legittimo possessore, quali, in particolare, il codice IMEI stampato nel vano batteria dell'apparecchio.
Di conseguenza, risponde del reato di ricettazione l’imputato che, colto nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, compresi telefoni cellulari, non fornisca una spiegazione attendibile dell'origine del possesso di detti beni.
Questo anche qualora risultino assenti elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto.
E’ sulla base di queste considerazioni che la Corte di cassazione, con sentenza n. 29627 dell’8 luglio 2019, ha accolto il ricorso promosso dal Procuratore della Repubblica contro l’assoluzione disposta dal Tribunale nei confronti di un uomo, imputato per il reato di cui all’articolo 647 del Codice penale, dopo che era stato trovato nel possesso di un telefonino cellulare di cui, tempo prima, era stato denunciato lo smarrimento.
Nel ricorso, il Procuratore aveva dedotto una violazione di legge, sostenendo che, nei casi come quello in esame, la qualifica di ricettazione doveva essere tenuta ferma, configurandosi quale reato presupposto il furto nella condotta di chi si impossessi di un bene - come il cellulare - che conserva chiari segni di un legittimo possesso altrui (nella specie, il codice IMEI).
Doglianze condivise dalla Suprema corte, secondo la quale il Tribunale non si era attenuto ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, per come richiamati nel ricorso.
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