A seguito di un sinistro in cui era deceduto il convivente di una donna, quest’ultima, insieme ai figli di lei, aveva adito le vie giudiziarie al fine di vedersi risarcire dall’assicurazione i danni patiti a titolo patrimoniale e non patrimoniale.
Ante causam, la società assicuratrice aveva già corrisposto alla madre una somma, pari a 150mila euro, che, tuttavia, non era stata ritenuta satisfattiva.
Gli attori si dolevano di aver subito un pregiudizio a causa della condotta colposa di colui che aveva provocato l’incidente, pregiudizio che, oltre alla donna, era pesato anche sui ragazzi che avevano coabitato, per anni, con la coppia di fatto.
I giudici di merito avevano rigettato tutte le domande e, in particolare, in sede di gravame, la Corte d’appello aveva osservato che ai figli non fosse risarcibile né il danno patrimoniale – posto che se gli attori avevano ricevuto aiuti economici dalla vittima dell’incidente ciò era accaduto per mero spirito di liberalità senza alcuna garanzia per il futuro – né il danno non patrimoniale, posta l’assenza di un rapporto parentale e il fatto che la convivenza aveva avuto limitata durata e , comunque, aveva riguardato un periodo in cui i due ragazzi erano sostanzialmente degli adulti.
Circostanze queste che – a detta della Corte territoriale – impedivano di poter considerare i figli come soggetti “danneggiati” in senso giuridicamente rilevante.
Con riferimento, invece, alla donna (ex convivente della vittima), la Corte d’appello aveva ritenuto che la somma già stanziata dalla Compagnia di assicurazione fosse “assolutamente satisfattiva”, e che un ulteriore danno, di natura patrimoniale, non era stato provato.
La decisione di secondo grado è stata quindi impugnata davanti ai giudici di legittimità e, in questa sede, è stato accolto uno dei motivi di doglianza dei ricorrenti.
In particolare, è stato accolto il motivo sollevato in relazione al danno patrimoniale subito dalla ex convivente, con il quale era stato osservato che il giudice di appello avrebbe dovuto apprezzare tutte le circostanze del caso valutando, anche ai fini della prova presuntiva, gli specifici elementi che erano stati rappresentati dagli istanti (durata quinquennale della convivenza; tendenziale stabilità della stessa; concessione di delega di firma sul conto corrente bancario intestato al de cuius; esclusione dei familiari a carico dell’uomo dalle sue dichiarazioni dei redditi; entità dei redditi del convivente deceduto; progressione costante dei suoi redditi; cassa integrazione della convivente con conseguente flessione reddituale).
Inoltre – era stato evidenziato - se si fossero ammesse anche le testimonianze richieste in via istruttoria, il giudice di appello sarebbe potuto pervenire al riconoscimento del lucro cessante in favore dell'appellante convivente more uxorio.
Orbene, secondo i giudici di Cassazione – sentenza n. 15766 del 15 giugno 2018 - i profili di censura denunciati erano da ritenere fondati: la Corte di appello aveva infatti omesso di applicare il procedimento presuntivo a fronte di fatti, quali quelli indicati nel motivo di censura, suscettibili di qualificazione come fatti da cui muovere per la catena inferenziale caratterizzante la valutazione presuntiva.
Da qui l’annullamento della sentenza con rinvio, sul punto, per un nuovo apprezzamento delle circostanze citate.
Sono stati ritenuti infondati, per contro, i motivi sollevati con riferimento al risarcimento dei figli della donna.
Sul punto, la Suprema corte ha sottolineato che il rapporto affettivo tra il figlio del partner e il compagno del suo genitore può dirsi rilevante per il diritto quando si inserisca in quella rete di rapporti che sinteticamente viene qualificata "famiglia di fatto".
Ciò che rileva non è dunque la mera esistenza del vincolo affettivo, ma il suo inquadramento entro le coordinate della famiglia di fatto, la cui sussistenza può desumersi da una serie di indici, quali la risalenza della convivenza, la diuturnitas delle frequentazioni, il mutuum adiutorium, l'assunzione concreta, da parte del genitore de facto, di tutti gli oneri, i doveri e le potestà incombenti sul genitore de iure.
Ricorrendo tale presupposto di fatto, il danno non patrimoniale segue i medesimi criteri applicabili alla famiglia de iure e, quindi, in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite.
Tuttavia, nella specie, il giudice di merito aveva accertato, con valutazione non censurabile, che non ricorresse il fondante presupposto del rapporto genitoriale di fatto.
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