Falsa presenza in servizio: licenziamento senza preavviso per condotte reiterate

Pubblicato il 22 luglio 2022

Legittimo il licenziamento senza preavviso del dipendente che abbia, in diverse occasioni, falsamente attestato i propri ingressi e le uscite dal luogo di lavoro, con conseguente prestazione del servizio per un orario inferiore a quello dichiarato.

Con sentenza n. 22376 del 15 luglio 2022, la Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui la Corte d'appello aveva respinto il ricorso di un dipendente pubblico, oppostosi al licenziamento per giusta causa irrogatogli dal datore di lavoro per falsa attestazione di presenze, ritenendo grave, in concreto, la condotta lui addebitata, pienamente idonea a giustificare la massima sanzione espulsiva.

Il lavoratore si era rivolto alla Suprema corte, lamentando, in primo luogo, una violazione di legge: secondo la sua difesa, la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto che l'irrogazione del licenziamento ex art. 55-quater D. Lgs. n. 165/2001 fosse automatica, senza obbligo, per l'Amministrazione, di compiere la valutazione di gravità della condotta, ai fini della sua attitudine a integrare un inadempimento notevole rispetto agli obblighi che gravano sul prestatore e della idoneità della medesima a ledere il rapporto fiduciario.

Lo stesso aveva inoltre dedotto la violazione del principio di proporzionalità tra sanzione e infrazione in quanto, a suo dire, la Corte territoriale non aveva proceduto a un esame degli aspetti concreti della vicenda, tanto di natura oggettiva che soggettiva.

Falsa attestazione di ingressi e uscite dal luogo di lavoro: recesso per giusta cusa

Doglianze, queste, giudicate infondate dalla Suprema corte, posto che la Corte di gravame, diversamente da quanto ex adverso affermato, non aveva affatto arrestato la propria indagine ad una ricognizione della riferibilità del comportamento del dipendente alla fattispecie delineata nel citato art. 55-quater, ma aveva compiuto una valutazione di gravità del comportamento medesimo a sostegno della ritenuta legittimità del recesso datoriale.

Il tutto, attraverso un ampio esame delle circostanze del caso concreto, sia di natura oggettiva che soggettiva, esame che l'aveva portata a concludere per la gravità dell'inadempimento posto in essere rispetto agli obblighi e ai doveri propri del prestatore di lavoro e per la irrimediabile compromissione del vincolo fiduciario.

Era stato osservato, in particolare:

La Corte di appello, ciò posto, si era uniformata all'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui: "In tema di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, introdotte dall'art. 55 quater, comma 1, lett. da a) ad f), e comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituiscono ipotesi aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva - le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi degli artt. 1339 e 1419, c. 2, cod. civ. - per le quali compete soltanto al giudice, ex art. 2106 cod. civ., il giudizio di adeguatezza delle sanzioni".

Con riferimento, infine, al giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato, la Suprema corte ha ricordato il consolidato il principio secondo il quale lo stesso "è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria", come nella vicenda di specie.

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