Con il presente elaborato si intende fare il punto in materia di risarcimento del danno da perdita di capacità lavorativa a seguito di sinistro, prendendo in esame alcune delle più recenti pronunce giurisprudenziali in merito.
Uno dei principi, in proposito, notoriamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, è quello secondo cui il risarcimento del danno da ridotta capacità lavorativa specifica non scatta in automatico, ma è sempre il soggetto danneggiato a dover dimostrare che la lesione si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale.
La Cassazione lo ha affermato anche con sentenza n. 4673 del 10 marzo 2016, non accordando detta voce di danno ad una professionista, sulla cui attività lavorativa (di carattere intellettuale), l’infortunio - da cui era dipesa una diminuzione della capacità motoria – aveva inciso ben poco.
La menomazione della capacità lavorativa specifica – ha chiarito innanzitutto la Suprema Corte - configurando un pregiudizio patrimoniale, va ricondotta nell'ambito del danno patrimoniale e non del danno biologico (Corte di Cassazione, sentenza n. 1879 del 27 gennaio 2011).
E costituisce per l’appunto acquisizione pacifica – proseguono gli ermellini – quella secondo cui il grado di invalidità permanente determinato da una lesione della integrità psicofisica, non determina automaticamente la riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica del danneggiato, né, conseguentemente, una diminuzione del correlato guadagno, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un’attività produttiva di reddito (o trattandosi di persona non ancora dedita ad attività lavorativa, che presumibilmente avrebbe svolto) e la diminuzione o il mancato conseguimento del guadagno in conseguenza del fatto dannoso.
In altre parole, occorre la dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale. Ed a tal fine, il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere un’attività produttiva di reddito e di non avere mantenuto, dopo l’infortunio, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali (Corte di Cassazione, sentenza 2758 del 12 febbraio 2015).
In ogni caso, affinché il giudice possa procedere all'accertamento presuntivo della perdita patrimoniale da menomazione di capacità lavorativa – anche nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile la menomazione di quella specifica – liquidando poi detta voce di danno patrimoniale con criteri presuntivi, è necessario che il danneggiato supporti la richiesta con elementi idonei alla prova in concreto del pregresso svolgimento di un’attività economica o del possesso di una qualificazione professionale acquista e non ancora esercitata (Corte di Cassazione, sentenza n. 114517/2015).
E nel caso esaminato la Cassazione – muovendo proprio dalla mancanza di qualsiasi automatismo discendente dalla diminuzione della capacità motoria accertata dal c.t.u. - ha evidenziato, da un lato, l’assenza di riscontri circa l’effettiva rilevanza di siffatte capacità sull'attività svolta o che la ricorrente avrebbe potuto svolgere (in considerazione della sua qualifica professionale), dall'altro, l’assenza di riscontri circa l’effettiva contrazione dei redditi.
Sulla stessa scia si muove la sentenza n. 7524 del primo aprile 2014, con cui la Corte di Cassazione, terza sezione civile, analogamente, ha negato l’autonoma voce di danno per perdita di capacità lavorativa ad un medico che aveva riportato un’invalidità permanente a seguito di un incidente stradale.
In tale occasione, la Suprema Corte ha ribadito che in tema di risarcimento del danno alla persona, sussiste la risarcibilità del danno patrimoniale solo qualora sia riscontrabile la riduzione o la eliminazione della capacità del danneggiato di produrre reddito. Mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggior usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidendo neanche sotto il profilo delle opportunità di reddito della persona offesa (c.d. perdita di chance) e risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo, va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute (Corte di Cassazione, sentenza n. 5840/2004).
Ai fini della risarcibilità di siffatto danno patrimoniale, occorre dunque la concreta dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio economico (Corte di Cassazione, sentenza n. 3290/2013) e la prova del danno grava sul soggetto che chiede il risarcimento. Invero, se tale prova può essere anche presuntiva, la riduzione della capacità di guadagno deve essere dimostrata in termini di sufficiente certezza, ossia, il danneggiato ha l’onere di provare come ed in quale misura la menomazione abbia inciso ed incida sulla capacità di guadagno.
Nel caso esaminato – ha concluso qui la Corte – è stato accertato che l’invalidità riscontrata non fosse tale far ritenere che il medico in questione non potesse continuare a svolgere l’attività di chirurgo in sala operatoria, seppure con maggior sforzo ed usura. Senza trascurare, peraltro, che non appariva di nessun rilievo l’attività prestata in uno studio ortopedico in qualità di libero professionista, che di per sé non necessitava di rilevante impegno fisico.
Con recente sentenza n. 5880 del 24 marzo 2016, la Corte di Cassazione ha viceversa stabilito che il danno da perdita di capacità lavorativa andasse liquidato separatamente e non assorbito nel danno non patrimoniale, in un ipotesi di invalidità permanente del 30% di un soggetto che non percepiva redditi al momento del sinistro poiché studente.
Secondo la Cassazione, in particolare, la Corte territoriale ha errato, nel caso di specie, a collocare il danno da perdita di capacità lavorative nell'ambito del c.d. danno non patrimoniale solo perché non risultava dimostrato con elevato grado di probabilità che il ragazzo in questione avrebbe terminato gli studi e svolto l’attività di ragioniere o altra specifica attività da cui trarre sostentamento patrimoniale.
Ne discende, dunque, il principio di diritto per cui, nel caso di lesioni sofferte da un soggetto minore, al momento del sinistro ancora studente, e che abbiano determinato una invalidità permanente pari al 30% - dunque di non lieve entità- il giudice di merito investito della domanda di riconoscimento del conseguente danno futuro patrimoniale per perdita di capacità lavorativa generica, non compie un corretto procedimento di sussunzione della fattispecie, allorquando ritenga di procedere alla liquidazione di tale danno all'interno del danno non patrimoniale, essendo tale possibilità limitata soltanto al caso di lesioni personali di lieve entità e peraltro limitatamente all'ipotesi in cui la loro concreta incidenza sulla futura capacità lavorativa pur generica rimanga oscura.
Con sentenza n. 24210 del 27 novembre 2015, la Corte di Cassazione ha invece negato che le Tabelle milanesi (per la liquidazione del danno biologico) possano essere sufficienti a risarcire la vittima di un incidente stradale, qualora essa non risulti più in condizioni di svolgere anche altri lavori oltre alla sua vecchia occupazione.
Secondo gli ermellini, in particolare – si legge nella motivazione – vanno risarciti al danneggiato non solo i danni patrimoniali subiti in ragione della derivata incapacità di continuare ad esercitare l’attività lavorativa prestata all'epoca dell’incidente (danni da incapacità lavorativa specifica), ma anche gli eventuali danni patrimoniali ulteriori, derivanti dalla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica, allorquando il grado di invalidità affettante il danneggiato non consenta al medesimo la possibilità di attendere anche altri lavori confacenti alle attitudini, condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, idonei alla produzione di fonti di reddito.
In tale ipotesi l’invalidità subita dal danneggiato si riflette comunque in una riduzione o perdita della sua capacità di guadagno, da risarcirsi sotto il profilo dl lucro cessante. Alla luce di ciò, va dunque escluso che il danno da incapacità lavorativa generica non attenga mai alla produzione di reddito e si sostanzi sempre e comunque in una lesione dell’integrità psicofisica risarcibile quale danno biologico, costituendo la lesione di un’attitudine o di un modo di essere del soggetto (Corte di Cassazione, sentenza n. 908 del 16 gennaio 2013).
In conclusione, la lesione della capacità lavorativa generica, consistente nella inidoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio ma confacente alle proprie attitudini, può invero costituire, dunque, un danno patrimoniale non ricompreso nel danno biologico, la cui esistenza va accertata caso per caso dal giudice di merito, il quale non può escluderlo per il solo fatto che le lesioni abbiano inciso o meno sulla capacità lavorativa specifica (Corte di Cassazione, sentenza n. 908/2013).
Orbene nel caso di specie, secondo la Corte, i giudici di merito avrebbero disatteso detti principi, negando la personalizzazione del danno da perdita di capacità lavorativa generica sul presupposto che fosse coperto dalla liquidazione in base alle Tabelle milanesi.
Sotto altro profilo deve porsi in rilievo che nella specie si verte in ipotesi di lesione macropermanente (70%), sicché rimane certamente escluso che il profilo della lesione di un’attitudine o di un modo di essere del danneggiato rientri nel danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, e la relativa liquidazione non può essere pertanto in questo ricompresa.
Trattasi viceversa di ulteriore danno patrimoniale derivante dalla riduzione o dalla perdita totale della capacità lavorativa generica, poiché per la sua entità, l’invalidità non consente al danneggiato la possibilità di attendere (anche) altri lavori confacenti alle sue attitudini ed idonei a produrre reddito, oltre a quello specificamente prestato al momento del sinistro (Corte di Cassazione, sentenza n. 12211 del 16 giugno 2015).
Si tratta in particolare di un aspetto del lucro cessante, di cui si compendia la categoria generale del danno patrimoniale, concernente la capacità di produzione di reddito futuro, o, più precisamente, della perdita di chance (intesa dalla stessa Corte quale entità giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno risarcibile da considerarsi non già futuro, bensì certo ed attuale in proiezione futura (Corte di Cassazione n. 2737 del 12 febbraio 2015 ed ancora sentenza n. 12211/2015).
Danno patrimoniale il cui onere probatorio incombe sul danneggiato - che al riguardo può avvalersi anche della prova presuntiva (Corte di Cassazione n. 15385 del 13 luglio 2011) e che va necessariamente liquidato in via equitativa ex art. 1226 c.c. (Corte di Cassazione, sentenza n. 2737/2015).
L’attribuzione del danno in questione oltretutto - affermano gli ermellini – non realizza alcuna duplicazione, nemmeno in presenza del riconoscimento e liquidazione del danno da incapacità lavorativa specifica.
Infine ai fini della determinazione del danno, la Corte ha in più occasioni precisato che, allorquando il danneggiato non sia in grado di dimostrare il reddito ovvero di produrlo a causa dell’età, degli studi intrapresi e ancora non conclusi, della cassa integrazione o della disoccupazione (salvo che sia volontaria), per la relativa quantificazione ben può farsi riferimento al criterio del triplo della pensione sociale, quale soglia minima di risarcimento (Corte di Cassazione, sentenza n. 20540 del 30 settembre 2014; sentenza n. 14278 del 28 giugno 2011) .
Infine, con l’ultima pronuncia in esame (n. 5249 del 6 marzo 2014), la Corte di Cassazione, terza sezione civile, ha riconosciuto il danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa ad una minore che, a seguito di un sinistro, aveva sviluppato una nevrosi fobica ed un forte attaccamento alla madre, tale di impedirgli di trovare un occupazione in futuro.
In particolare, la Suprema Corte contesta la decisione di merito che – nel negare dapprima detto risarcimento – si era esclusivamente fondata sulla considerazione che la danneggiata aveva conservato intatte le sue capacità di critica. Mentre aveva omesso di considerare le condizioni psichiche della danneggiata, ovvero, che l’accertata nevrosi fobica fosse potenzialmente idonea ad influire sulle sue capacità di relazionarsi con le altre persone e quindi, di esplicare attività lavorative.
Quadro Normativo |
Corte di Cassazione, sentenza n. 4673 del 10 marzo 2016; Corte di Cassazione, sentenza n. 1879 del 27 gennaio 2011; Corte di Cassazione, sentenza n. 2758 del 12 febbraio 2015; Corte di Cassazione, sentenza n. 114517/2015; Corte di Cassazione, sentenza n. 7524 primo aprile 2014; Corte di Cassazione sentenza n. 5840/2004; Corte di Cassazione, sentenza n. 3290/2013; Corte di Cassazione, sentenza n. 5880 del 24 marzo 2016; Corte di Cassazione, sentenza n. 24210 del 27 novembre 2015; Corte di Cassazione, sentenza n. 908 del 16 gennaio 2013; Corte di Cassazione, sentenza n. 12211 del 16 giugno 2015; Corte di Cassazione, sentenza n. 2737 del 12 febbraio 2015; Corte di Cassazione, sentenza n. 15385 del 13 luglio 2011; Corte di Cassazione, sentenza n. 20540 del 30 settembre 2014; Corte di Cassazione, sentenza n. 14278 del 28 giugno 2011; Corte di Cassazione, sentenza n. 5249 del 6 marzo 2014. |
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