Trasfusione infetta, clinica non responsabile

Pubblicato il 25 febbraio 2016

La casa di cura privata non è tenuta a risarcire il paziente che ha contratto una patologia a seguito di trasfusioni di sangue infetto, non essendo obbligata ad effettuare ulteriori e costosi controlli sulle sacche di sangue fornite dal centro territoriale a ciò preposto. La responsabilità ricade piuttosto sul Ministro della Salute, a cui è imputabile la mancata predisposizione di tutto quanto necessario per rendere concrete le misure di prevenzione note a livello mondiale.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, con sentenza n. 3261 depositata il 19 febbraio 2016, pronunciandosi in ordine alla vicenda di una donna che aveva proposto domanda di risarcimento danni per aver contratto epatite C mediante trasfusioni di sangue, eseguite presso una casa di cura privata in occasione di un intervento chirurgico.

La ricorrente, in particolare, aveva chiamato in causa sia la struttura sanitaria ove era stata curata, sia il Ministero della sanità, i cui profili di responsabilità sono stati singolarmente esaminati dalla Suprema Corte.

Il Ministero della salute è responsabile

Quanto al Ministero della Salute – rispetto alle trasfusioni di sangue infetto nella specie avvenute nel 1989 e che pacificamente hanno causato la malattia– la Corte rileva l’omesso esercizio del dovere di direttiva, controllo e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico, volto a garantire l’utilizzazione di sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standard di esclusione dei rischi, quali conosciuti ed acquisti al più alto livello scientifico mondiale già a partire dal 1978, per via della raggiunta conoscenza della veicolazione dei virus (con esclusione della imprevedibilità ed esistenza della regolarità causale quanto al contagio). Ne deriva la responsabilità del Ministero ex art. 2043 c.c.

La casa di cura non è responsabile

Quanto alla casa di cura, la paziente lamentava il mancato riconoscimento, nei precedenti gradi di giudizio, della responsabilità contrattuale, sostenendo la ravvisabilità di un comportamento negligente e gravemente colpevole in ordine all'accaduto.

Attraverso la commentata censura, la Cassazione è dunque investita della seguente questione: se la casa di cura che ha effettuato le trasfusioni – utilizzando sacche di sangue provenienti dal servizio trasfusionale della Usl di competenza ed ivi sottoposte ai controlli preventivi richiesti dalla normativa all'epoca vigente – sia responsabile o meno per inadempimento contrattuale dell’obbligo di garantire che le trasfusioni siano eseguite con sangue non infetto, non avendo posto in essere quei controlli ulteriori, conosciuti al più alto livello scientifico mondiale e non ancora obbligatori sulla base della normativa vigente.

La risposta – secondo la Corte – non può che essere negativa.

Rapporto paziente/struttura sanitaria: contratto di spedalità

Ancor prima di giungere alla conclusione, il Supremo Collegio passa in esame - quale presupposto - il rapporto paziente/struttura sanitaria (indipendentemente dalla natura pubblica o privata della stessa), inquadrandolo in un contratto atipico a prestazioni corrispettive (c.d. contratto di spedalità).

E’, infatti, ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale – condiviso anche dalla dottrina prevalente –secondo cui la responsabilità dell’ente sanitario si configura quale contrattuale (si veda, da ultimo, Corte di Cassazione, terza sezione civile, n. 5520 del 20 marzo 2015). Ciò sull'assunto che l’accettazione del paziente nella struttura sanitaria, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporti la conclusione di un contratto definito per l’appunto di spedalità o di assistenza sanitaria, che comprende non solo prestazioni primarie o di carattere medico – sanitario, ma anche accessorie, quali vitto, alloggio ed assistenza.

Struttura sanitaria, responsabilità autonoma dai singoli operatori

A tale contratto risultano, dunque, applicabili le regole ordinarie sull'inadempimento di cui agli artt. 1218 e 1176 c.c. in riferimento a forme di responsabilità autonome della struttura sanitaria, che prescindono cioè dall'accertamento di una eventuale condotta negligente dei singoli operatori e che trovano la loro fonte nell'inadempimento di obbligazioni direttamente riferibili alla sola struttura ospedaliera.

Si valorizza in questo modo la complessità e l’atipicità del legame che si instaura tra paziente e struttura, che, si è detto, comprende una molteplicità di servizi (messa a disposizione di personale medico, ausiliario, paramedico, apprestamento di medicinali, di attrezzature, prestazioni alberghiere) necessari per la cura del paziente. 

Dalla ricostruzione in termini di autonomia del rapporto struttura – paziente rispetto a quello medico – paziente (che, invece, si fonda su un contratto d’opera professionale ex art. 2229 c.c. sempre riconducibile a responsabilità contrattuale del sanitario) discendono importanti conseguenze sul piano dell’affermazione della responsabilità. Sussistendo, in effetti, il contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della struttura prescinde da quella del medico in ordine alla produzione del danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con alcuna condotta dell’operatore, bensì con le scelte generali di gestione ed organizzazione nel fornire la prestazione di cura al paziente.

Ora, tra le prestazioni di cura cui la struttura è solitamente obbligata, rileva anche quella di fornire sangue non infetto, mentre è pacifico che nel caso di specie lo stesso fosse infetto - nonostante provenisse dal centro territoriale a ciò deputato in base all'organizzazione nazionale della sanità – e ci si domanda, pertanto, se la casa di cura avesse esaurito la diligenza richiesta nel comportamento di fatto tenuto o se, viceversa, le fosse richiesta l’effettuazione di ulteriori controlli a fini preventivi.

Conclusioni della Corte

Come anticipato, la Suprema Corte ha ritenuto l’accaduto casualmente imputabile al Ministero – quale soggetto istituzionalmente tenuto alla tutela della salute pubblica – per la mancata predisposizione di tutto quanto occorresse a rendere concrete le misure di prevenzione note a livello mondiale: innanzitutto acquisendone repentinamente la conoscenza, poi assicurandone sia la concreta attuazione mediante misure di organizzazione e funzionamento dei servizi, sia la vigilanza ed il controllo per garantire il raggiungimento dello scopo per il quale gli è attribuito il potere.

Per quanto, di contro, concerne la singola struttura sanitaria operante sul territorio – cui compete attività gestionale inserita nella rete del servizio sanitario nazionale – sia essa pubblica o privata, non può ritenersi che nella diligenza ad essa richiesta rientri il dovere di conoscere ed attuare le misure di prevenzione attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale, per scongiurare la trasmissione del virus. Ciò comporterebbe scelte gestionali di notevole impatto economico, sempre autonomamente possibili ma non certamente esigibili come contenuto della diligenza qualificata, attesa la peculiarità dell’attività svolta.

Quadro Normativo

art. 1176 c.c.

art. 1218 c.c.

art. 2043 c.c.

art. 2229 c.c 

 

 

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