Impresa familiare: ai conviventi di fatto vanno riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore
Con la sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto.
In via consequenziale, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’articolo 230-ter c.c., decidendo ai sensi dell’articolo 27 delle Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale.
La Consulta si è così pronunciata rispetto alle questioni di incostituzionalità promosse dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili.
La Cassazione era stata chiamata a decidere sulla domanda di una donna che richiedeva il riconoscimento della sua partecipazione all'impresa familiare del convivente deceduto e la conseguente liquidazione della sua quota.
La Corte costituzionale ha ritenuto le questioni fondate, in riferimento agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione.
I giudici della Consulta hanno rinvenuto il fulcro delle questioni nella portata della tutela del convivente more uxorio, cioè del convivente di fatto ex articolo 1, comma 36, della Legge n. 76/2016 (Legge Cirinnà).
Per conviventi di fatto si intendono "due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale".
La tutela dei conviventi di fatto è ricavabile dalla Costituzione, che all’articolo 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Tale tutela si affianca a quella che l’articolo 29, primo comma, della Costituzione riserva alla "famiglia come società naturale fondata sul matrimonio".
La Corte ha evidenziato come vi sia stata una convergente evoluzione normativa e giurisprudenziale, sia a livello nazionale che europeo, che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
Il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione richiede uguale protezione nel contesto dell’impresa familiare, sia per il coniuge che per il convivente di fatto.
Da una parte, infatti, il modello scelto del Costituente è la famiglia fondata sul matrimonio.
Dall'altra, le differenze tra le discipline sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione, o della protezione di soggetti disabili, o dell’affettività di persone detenute o, infine, del diritto al lavoro e alla giusta retribuzione.
Tale ultimo diritto, nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, atteso che anche il convivente di fatto, come il coniuge, versa nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta.
Senza tale tutela, il lavoro del convivente rischia di essere considerato gratuito.
La normativa successiva ha posto rimedio solo parzialmente, introducendo una fattispecie limitata di partecipazione all’impresa familiare del convivente di fatto (art. 230-ter cod. civ.), con una tutela significativamente ridotta.
L'art. 230-ter cod. civ., infatti, riconoscendo al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi, applicherebbe allo stesso una tutela patrimoniale inferiore rispetto a quella riconosciuta al familiare dall’art. 230-bis cod. civ., privandolo di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili.
La Corte Costituzionale, in definitiva, ha riconosciuto che la mancata inclusione dei conviventi more uxorio tra i soggetti che possono partecipare all'impresa familiare costituisce una violazione dei principi di uguaglianza e di tutela del lavoro sanciti dalla Costituzione.
Questa inclusione si basa su una lettura costituzionalmente orientata della norma, volta a eliminare le diseguaglianze e a garantire una tutela minima e inderogabile a tutti i rapporti di lavoro nell'ambito familiare.
Sintesi del Caso | Una donna richiedeva il riconoscimento della sua partecipazione all'impresa familiare del convivente deceduto e la conseguente liquidazione della sua quota. I giudici di merito avevano rigettato la richiesta, affermando che la normativa vigente all'epoca non riconosceva tali diritti ai conviventi more uxorio. La Corte di Cassazione, SU civili, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 230-bis e 230-ter c.c. |
Questioni Dibattute | La questione centrale era se l'art. 230-bis del codice civile, nella parte in cui non include i conviventi more uxorio tra i familiari che possono partecipare all'impresa familiare, violasse i principi di uguaglianza e tutela del lavoro sanciti dalla Costituzione italiana. |
Soluzione della Corte costituzionale | La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiari anche i conviventi more uxorio e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto. Di conseguenza, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 230-ter c.c. |
Ai sensi dell'individuazione delle modalità semplificate per l'informativa e l'acquisizione del consenso per l'uso dei dati personali - Regolamento (UE) n.2016/679 (GDPR)
Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti legati alla presenza dei "social plugin".