Il coimputato assolto ben può fornire la prova, in quanto la sua testimonianza è pienamente attendibile.
E’ questo, in sintesi, il principio espresso dalla Corte Costituzionale, nell’ambito di un procedimento, di cui Tribunale rimettente era stato investito, nei confronti di tre imputati rinviati a giudizio per cessione di stupefacenti. Nel corso dell’istruttoria, veniva ascoltato come testimone un imputato di reato probatoriamente collegato, assolto tuttavia con sentenza irrevocabile “perché il fatto non sussiste”.
In sede di conclusioni, il pubblico ministero aveva chiesto la condanna degli imputati, secondo un’ipotesi accusatoria che poggiava in maniera determinante sulle dichiarazioni del coimputato assolto, il quale aveva riferito dell’acquisto della droga ed aveva riconosciuto in foto gli imputati del procedimento principale come i venditori della sostanza.
Detto testimone – osservava tuttavia la difesa – aveva la qualità di persona già imputata di reato collegato, per cui la sua deposizione avrebbe dovuto essere valutata secondo i canoni stabiliti dall’art. 192 comma 3 c.p.p., essendo dunque idonea a fornire piena prova, solo in presenza di “altri elementi probatori che ne confermano l’attendibilità”.
Da qui scaturisce, dunque, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197 bis commi 3 e 6 e 192 comma 3 c.p.p., in quanto – secondo il giudice rimettente – l’intervenuta assoluzione di un coimputato con formula “perché il fatto non sussiste”, costituirebbe una circostanza idonea ad eliminare qualsiasi relazione di quel dichiarante, rispetto ai fatti oggetto del procedimento, si da far assimilare la sua situazione a quella di “indifferenza” di un teste ordinario.
La disciplina censurata – prosegue il Tribunale rimettente - oltre a risultare priva di ragionevolezza, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, in quanto parificherebbe la posizione dell’imputato in un procedimento connesso o in un reato collegato, assolto con sentenza irrevocabile, a quella della persona dichiarante ai sensi dell’art. 210 c.p.p.. Per converso, la diversificherebbe profondamente da quella del testimone ordinario, tanto sotto il profilo dell’obbligo di assistenza difensiva, quanto sotto quello della limitazione probatoria delle dichiarazioni.
Questione ritenuta fondata dai giudici costituzionali, secondo i quali va per l’appunto dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 197 bis comma 6 c.p.p., nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192 comma 3 medesimo codice di rito, anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate all’art. 197 bis comma 1, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste”, divenuta irrevocabile.
La dichiarazione di illegittimità va altresì estesa – prosegue la Consulta con sentenza n. 21 depositata il 26 gennaio 2017 – all’art. 197 bis comma 3 c.p.p., onde evitare che la testimonianza del dichiarante, imputato in un procedimento connesso o in un reato collegato e poi assolto perché il fatto non sussiste, resti soggetta ad una modalità di assunzione della prova in regime di testimonianza assistita
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