E' stato accolto, dalla Corte di cassazione, il ricorso avanzato da una Spa contro la decisione con cui la Corte d'appello aveva dichiarato illegittimo, annullandolo, il licenziamento senza preavviso intimato a una dipendente.
A quest'ultima era stata contestata un'assenza ingiustificata e di non avere avvisato i suoi superiori con valida certificazione.
Nel periodo in contestazione, la lavoratrice si trovava in Marocco e a giustificazione della propria assenza aveva inviato due certificati medici, debitamente tradotti in italiano ma privi della "Apostilla", vale a dire della formalità richiesta ai fini di attestare la veridicità della firma sull'atto, il titolo in virtù del quale l'atto è firmato e l'autenticità del sigillo o del bollo.
Secondo la Corte territoriale, i certificati medici rientravano tra gli atti pubblici per i quali, ai sensi della Convenzione dell'Aja del 1961, non era necessaria la legalizzazione e, comunque, nel caso in esame si verteva in un'ipotesi di assenza dal lavoro non regolarmente giustificata ma non del tutta priva di giustificazione.
Per il giudice di gravame, ossia, la giusta causa sarebbe stata ravvisabile solo nell'ipotesi di assenza priva di giustificazione sostanziale mentre, nella vicenda di specie, trovava applicazione l'ipotesi di insussistenza del fatto contestato, tutelabile ex art. 18 comma 4 dello Statuto dei lavoratori.
La società si era rivolta alla Suprema corte, censurando, tra i motivi, il passaggio argomentativo secondo cui l'Apostilla, ritenuta necessaria per le certificazioni mediche inviate all'INPS per la corresponsione della indennità di malattia, era stata considerata un vizio non sostanziale del certificato medico de quo.
Da qui la pronuncia dei giudici di legittimità.
Con ordinanza n. 24697 dell'11 agosto 2022, la Cassazione ha rammentato che l'Apostille è un timbro apposto dal governo di un Paese firmatario della Convenzione dell'Aja del 1961, con cui si riconosce la qualità con cui opera il funzionario pubblico sottoscrittore, la veridicità della firma e l'identità del timbro o del sigillo del quale il documento è rivestito.
L'apposizione di tale timbro - ha puntualizzato la Corte - non rende più necessaria la legalizzazione del documento da parte dell'autorità diplomatica del Paese di provenienza.
Essendo, pertanto, una certificazione che incide sulla autenticità formale e sostanziale di un documento da utilizzare con valore giuridico in un Paese straniero, era errata la conclusione cui era giunta, nella specie, la Corte di secondo grado.
In assenza di tale forma legale di autenticità del documento, infatti, non è possibile attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero, pur aderente alla menzionata Convenzione.
Nella vicenda esaminata, la certificazione medica inviata dalla lavoratrice, per avere valore giuridico in Italia, avrebbe dovuto contenere la Apostille. Essendone priva, era carente di ogni valore giuridico, non assumendo alcuna rilevanza nemmeno la sua traduzione in italiano.
La stessa, pertanto, non era da ritenere idonea a giustificare l'assenza, non risultando certificate né la provenienza dell'atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, né la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente.
A fronte di tale documento, era anche errato ritenere che al datore di lavoro non sarebbe stato precluso di verificare, anche successivamente, la legittimità dell'assenza.
In caso di assenza ingiustificata, infatti, al datore di lavoro grava l'onere di provare la condotta che ha determinato l'irrogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possano giustificarlo.
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