Avviamento su cessioni d’azienda: calcolo registro senza listini

Pubblicato il 30 marzo 2019

La Corte di cassazione ha dettato alcune indicazioni in materia di cessioni di azienda, utili, in particolare, per il calcolo del valore dell'avviamento commerciale, quale parte del corrispettivo della cessione medesima.

Riprendendo un principio di diritto precedentemente enunciato, gli Ermellini hanno spiegato, a tal fine, come determinare la base imponibile dell'imposta di registro di cui agli articoli 51 del D.P.R. n. 131/1986 e 2, comma 4 del DPR n. 460/1996, posto che questa ha la funzione di fungere da parametro minimo per il relativo calcolo.

Sul punto, è stato evidenziato come detta base imponibile vada determinata applicando la percentuale di redditività nella misura ritenuta congrua dal giudice di merito alla media dei ricavi - e non degli utili operativi - accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d'imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, applicando di seguito il moltiplicatore previsto dalla norma.

Annullato l'avviso di rettifica

E’ quanto si legge nel testo della sentenza n. 7941 del 21 marzo 2019, pronunciata dalla Sezione Tributaria civile nell’ambito di un giudizio che aveva ad oggetto un avviso di accertamento emesso nei confronti del cedente e del cessionario di un'operazione di cessione che aveva riguardato una ricevitoria del lotto.

Con l’avviso, l’agenzia delle Entrate aveva rettificato il valore dell'avviamento, dichiarato dalle parti pari a zero, rideterminandolo con riferimento alla media degli agi percepiti nel triennio precedente ed utilizzandolo quale base imponibile per il recupero dell'imposta di registro, interessi e sanzioni. In particolare, era stato ritenuto corretto l'utilizzo, nell'accertamento tributario, del listino FIMAA, e giudicato, conseguentemente, congruo il valore imponibile accertato dall'Ufficio.

A fronte del rigetto, da parte della CTP e della CTR, delle impugnazioni sollevate dai contribuenti, questi ultimi si erano successivamente rivolti ai giudici di legittimità.

Listini FIMAA? Non sono certificazioni di legge

La Suprema corte, in detto contesto, ha rilevato che la decisione impugnata era effettivamente incorsa in un vizio di insufficiente motivazione, in quanto non aveva fornito un’adeguata spiegazione circa la ritenuta applicabilità del listino FIMAA alle ricevitorie del lotto e l’attendibilità dei valori in esso esposti.

Difatti – ha precisato la Corte - il menzionato listino FIMAA (Federazione Italiana Mediatori Agenti d’Affari) è basato su rilevazioni di mercato effettuate da un'associazione di agenzie che gestiscono il mercato delle aziende in Milano e provincia ed è ovviamente incontestato che a tali rilevazioni non possa essere attribuita la qualifica di certificazione di legge.

Per i giudici di Piazza Cavour, quindi, era stata operata una “dilatazione del ricorso al fatto notorio oltre i limiti entro i quali esso è idoneo a derogare al principio dispositivo delle prove, quale fatto acquisito alle conoscenze della collettività secondo la comune esperienza di questa”.
 

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