La Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con sentenza n. 6047 del 13/03/2018, è tornata ad occuparsi del travagliato tema inerente allo svolgimento da parte del dipendente di un’attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per malattia. Nell’occasione i Giudici di legittimità, ponendosi nel solco dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, hanno stabilito che l’illecito disciplinare si configura se l’attività extra-lavorativa comporti un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro ovvero rischi di generare un ritardato rientro in servizio del dipendente.
Lo svolgimento di attività di lavoro durante lo stato di malattia è infatti una condotta potenzialmente idonea a ledere il vincolo fiduciario e suscettiva quindi di giustificare il recesso del datore per giusta causa.
Al riguardo la sentenza n. 6047 del 13/03/2018 ritiene che la legittimità del licenziamento è condizionata dalla ricorrenza, anche alternativa, di almeno uno dei seguenti requisiti:
Secondo la giurisprudenza sopra richiamata la prova circa la sussistenza di uno o di entrambi i requisiti è appannaggio del datore di lavoro.
Tuttavia, poiché si tratta di giudizi a contenuto medico-scientifico, gli stessi non possono che essere formulati dal datore con il rigoroso rispetto della previsione di cui all’art. 5 commi 1 e 2 della L. n. 300/70. A tal fine è bene ricordare che l’art. 5 comma 1 della L. n. 300 cit. vieta al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Mentre il secondo comma della suddetta previsione stabilisce che “il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda”.
Orbene, dalle sentenze che hanno trattato dell’incompatibilità tra malattia e attività extra-lavorativa, emerge che le sanzioni (licenziamenti) irrogate ai dipendenti si basano esclusivamente su giudizi espressi dalla parte datoriale mediante un raffronto approssimativo circa la concomitanza della malattia con l’attività di lavoro. Non risulta che i datori di lavoro abbiano coinvolto nelle verifiche i “servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti”.
Ulteriore aspetto criticabile è rappresentato dalla circostanza che i giudici di merito, chiamati a decidere sulla legittimità o meno delle sanzioni irrogate, non hanno sottoposto la determinazione della parte datoriale al vaglio di consulenti tecnici, onde saggiare, in maniera scientifica, la ricorrenza di uno o entrambi i requisiti testé descritti. La perplessità aumentano ove si consideri che in sede di giudizio di legittimità tale modus operandi non risulta neppure censurato.
Così facendo alla valutazione empirica della parte datoriale circa la condotta del dipendente si aggiunge e si sovrappone quella operata del giudice.
Si tratta di una metodologia che non appare accettabile, quantomeno nella misura in cui l’inconciliabilità tra malattia e attività extra-lavorativa non sia palese, com’è il caso ad esempio dell’attività sportiva praticata dal dipendente in costanza di polmonite.
Pertanto, la fedeltà al criterio stabilito dalla giurisprudenza obbliga il datore di lavoro a osservare il precetto dell’art. 5 della L. n. 300 cit. e a ricorrere all’opera dei servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, onde valutare, per il tramite di costoro, l’effettività della malattia denunciata dal dipendente ovvero la pericolosità dell’attività espletata da quest’ultimo in vista della ripresa dell’attività lavorativa.
D’altronde tale valutazione presuppone comunque la conoscenza quantomeno della tipologia di malattia accusata dal lavoratore, onde compararla, in sede di giudizio di conciliabilità, con la specifica attività esercitata nelle more da quest’ultimo. Si tratta di un aspetto tutt’altro che secondario e che non emerge dalle sentenze che hanno trattato l’argomento per la semplice osservazione che le controversie giurisdizionali si basano tutte su fatti accaduti antecedentemente all’entrata in vigore del D.I. del 26 febbraio 2010 e del disciplinare tecnico collegato, nonché del D.I. del 18 aprile 2012 e del disciplinare tecnico allegato. Provvedimenti con i quali è stata data attuazione alle disposizioni normative inerenti alle modalità tecniche per la predisposizione e l’invio telematico dei dati delle certificazioni di malattia al SAC (Sistema di Accoglienza Centrale - messo a disposizione dal Ministero dell’economia e delle finanze).
È bene ricordare, infatti, che prima dell’entrata in vigore di tali provvedimenti il lavoratore trasmetteva il certificato di malattia al proprio datore di lavoro, con la conseguenza che quest’ultimo poteva prendere diretta visione del tipo di evento morboso in esso descritto ed esprimere, in una certa misura, un giudizio approssimativo sull’eventuale simulazione dello stato di malattia o sulla pericolosità dell’attività espletata rispetto al rientro in servizio del dipendente.
Tale possibilità è venuta radicalmente meno con il sistema SAC e quindi, nella materia di cui trattasi, la sfera di conoscenza del datore di lavoro si arresta all’attestato di malattia e al tipo di attività extra-lavorativa esercitata dal dipendente, ma non investe in alcun modo la natura dell’evento morboso, la quale è descritta nel certificato di malattia (quest’ultimo in detenzione del dipendente, del medico curante e dell’INPS).
Attesa l’ignoranza in cui versa il datore di lavoro, non appare obiettivamente possibile pretendere da quest’ultimo l’adempimento probatorio richiesto dal principio giurisprudenziale in commento. Piuttosto, e a ben vedere, il rischio sotteso a tale indirizzo è quello di legittimare l’adozione di un criterio disciplinare esattamente inverso a quello predicato: irrogazione di una sanzione “al buio” e quindi scevra da valutazioni causali o prognostiche e del tutto abnormi rispetto ai fatti concreti. Si pensi al caso del lavoratore che si assenti dal lavoro per un dolore reumatico e, al fuori dalle ore di reperibilità, si dedichi nell’impresa familiare a svolgere un’attività di disbrigo delle pratiche amministrative. Il datore di lavoro, non essendo in possesso del certificato di malattia, non può in nessun modo adempiere all’onere probatorio stabilito con sentenza n. 6047 cit.. Quindi l’unica possibilità residua non potrebbe essere che quella di aprire il procedimento disciplinare e di sanzionare il dipendente a prescindere da ogni valutazione circa la simulazione o meno della malattia o della conciliabilità di quest’ultima con l’attività amministrativa svolta in seno all’impresa familiare dal lavoratore.
L’equivoco si supera ove si ritenga che il datore di lavoro, nelle more del procedimento disciplinare, sia tenuto a coltivare un’istruttoria che abbia a oggetto non solo l’accertamento dello svolgimento dell’attività extra-lavorativa ma anche l’acquisizione della documentazione medica comprovante l’evento morboso denunciato dal dipendente.
Ciò significa che il datore di lavoro, in sequenza logica e temporale, dovrebbe:
L’eventuale sanzione irrogata potrà pur sempre essere sottoposta al vaglio dell’organo giudicante. In tal caso però la decisione della parte datoriale non potrà essere tacciata di pregiudizialità.
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