E' costituzionalmente illegittimo l’art. 646, primo comma, del Codice penale sul reato di appropriazione indebita, nella parte in cui prevede la pena della reclusione "da due a cinque anni" anziché solo "fino a cinque anni".
Lo ha sancito la Corte costituzionale con sentenza n. 46 del 22 marzo 2024, nel pronunciarsi sulla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Firenze in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
Il giudice rimettente, in particolare, dubitava della legittimità della scelta, compiuta dal Legislatore con Legge n. 3/2019, di innalzare la pena minima correlata alla fattispecie in esame dalla previgente soglia di quindici giorni a quella di due anni di reclusione.
Per il Tribunale, si trattava di pena sproporzionata, sia rispetto a quelle applicabili per i contigui delitti di furto e truffa, sia in rapporto alla concreta gravità di una vasta gamma di condotte sussumibili entro la medesima fattispecie criminosa, ma di contenuto disvalore offensivo rispetto al bene giuridico protetto.
La Consulta ha giudicato le questioni fondate: l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della propria politica criminale, e, in particolare, nella determinazione delle pene applicabili e nella selezione delle condotte costitutive di reato, non equivale ad arbitrio.
E difatti:
E' di spettanza della Corte costituzionale, in tale contesto, il controllo sul rispetto di tali limiti, controllo da esercitare con particolare attenzione quando la legge incide sui diritti fondamentali della persona, come nel caso delle leggi penali, suscettibili di incidere, oltre che su altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari.
Per quanto riguarda il delitto di appropriazione indebita, la Corte ha osservato che tale fattispecie, a partire dalla data di entrata in vigore del Codice penale e sino al 2019, è stata punita, nella sua forma base, con la reclusione fino a tre anni, oltre alla multa.
Sulla base, poi, della regola generale di cui all’art. 23 del Codice penale, la pena detentiva minima prevista per il delitto era, dunque, quella di quindici giorni di reclusione.
Con l'introduzione dell'art. 1, comma 1, lettera u), della Legge n. 3/2019, la cornice edittale relativa al reato è stata resa sensibilmente più severa, spaziando un minimo di due anni di reclusione sino a un massimo di cinque, accanto alla multa da 1.000 a 3.000 euro.
Viene inoltre evidenziato che le ragioni di tale brusco innalzamento del trattamento sanzionatorio non sono state in alcun modo illustrate nel corso del dibattito parlamentare.
Per la Corte, comunque, la scelta del legislatore parrebbe comprendersi in relazione alla necessità di colpire severamente condotte appropriative, potenzialmente prodromiche a pratiche corruttive.
In ogni caso, resterebbe del tutto oscura la ragione che ha indotto il Legislatore ad innalzare in maniera così aspra il minimo edittale.
Ebbene, secondo la Consulta, la mancanza di qualsiasi plausibile giustificazione di un così rilevante inasprimento della pena per tutti i fatti di appropriazione indebita - e, conseguentemente, di una compressione assai più gravosa della libertà personale per i destinatari del precetto penale rispetto alla situazione preesistente - rende di per sé costituzionalmente illegittima la disciplina censurata.
Questo, in relazione al duplice parametro degli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, per come evocati dal giudice rimettente.
A ben vedere, inoltre, per effetto dell’innalzamento del limite edittale minimo, il trattamento sanzionatorio dell’appropriazione indebita finisce per essere assai più gravoso di quello riservato al furto e alla truffa.
Quella che emerge, in altri termini, è un'irragionevole disparità di trattamento, particolarmente evidente laddove si consideri la difficoltà, su cui si sofferma da sempre la dottrina penalistica, di tracciare la linea discretiva tra furto e appropriazione indebita da un lato, e truffa e appropriazione indebita dall’altro.
Tali rilevate sperequazioni sanzionatorie pongono seriamente in discussione il canone della coerenza tra le norme dell’ordinamento, espressione del principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Tenuto conto dell'illegittimità della previsione, quindi, i giudici costituzionali hanno provveduto alla reductio ad legitimitatem della stessa, disponendo la sola dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena minima di due anni di reclusione.
L’ablazione del minimo - si legge nelle conclusioni della decisione - determina la riespansione della regola generale di cui all’art. 23 del Codice penale, che, come sopra ricordato, stabilisce in quindici giorni la durata minima della reclusione per i casi in cui la legge non disponga diversamente.
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