Sul transfer price il Fisco statunitense “salta” i criteri Ocse

Pubblicato il 13 ottobre 2006

Il caso, di poche settimane fa, che ha visto contrapposti l’amministrazione finanziaria statunitense (Irs) e la multinazionale farmaceutica di origine britannica Glaxo Smith Kline ha suscitato molto clamore sia perchè quest’ultima si è impegnata a versare 3,4 miliardi di dollari al Fisco americano per chiudere una disputa che riguardava il reddito della filiale Usa per gli anni dal 1989 al 2005, sia per i riflessi che tale accertamento potrebbe estendere, per esempio, anche al mondo economico italiano.

 

In particolare, si sottolineano due questioni:

 

- da una parte, come alle filiali distributive americane di multinazionali estere sia richiesto di dichiarare negli Usa un reddito superiore la normale remunerazione che chiederebbe, in circostanze simili, un distributore “routinario”. L’amministrazione statunitense però sostiene esattamente il contrario nel caso del distributore affiliato che risiede all’estero, quando afferma che il maggior contributo al valore dei prodotti provenga dalle spese di marketing e dalle caratteristiche intrinseche e non dall’attività di distribuzione);

 

- dall’altra parte, le amministrazioni finanziarie di Stati diversi dagli Usa (per cui anche europee) potrebbero affermare che anche i distributori affiliati che operano sotto la loro giurisdizione siano semplicemente creatori di intangibili di marketing (è il caso di ciò che avviene oggi in Francia e in Giappone).

 

Per evitare, però, che conclusioni superficiali – come quelle legate al caso Glaxo - possano portare a fenomeni di doppia imposizione e di grave danno allo sviluppo economico, è intervenuto l’Ocse ribadendo che in materia di transfer price vi sono delle direttive ben precise, con i principi internazionalmente convenuti e ai quali devono  attenersi le imprese multinazionali e le amministrazioni finanziarie dei vari Stati nazionali per uniformare il loro approccio ai controlli.

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