Con la recente ordinanza n. 16580 di ieri 23 maggio 2022, la Sezione lavoro della Corte di Cassazione si è espressa in tema di straining, escludendolo quando la sindrome depressiva del dipendente rileva per proprie condizioni personali e non per colpa del datore di lavoro.
La fattispecie del mobbing si configura quando la condotta del datore di lavoro o di un collega si manifesta con comportamenti persecutori e vessatori reiterati e sistematici, che si traducono poi in umiliazioni o intimidazioni verso il lavoratore tali da recargli un danno alla salute psico-fisica.
Lo straining, invece, si realizza quando la condotta vessatoria, unica ed isolata, provochi stress duraturo nell’ambiente lavorativo; la differenza tra le due fattispecie risiede, quindi, nella continuità o meno delle azioni intimidatorie.
Tipici esempi di straining sono, ad esempio, il demansionamento, la dequalificazione, l’isolamento, la privazione degli strumenti di lavoro, l’emarginazione dall’attività lavorativa.
Lo straining, dunque, si riferisce ad una condizione psicologica di stress connaturato alla natura stessa del lavoro che induce chi ne è vittima a compiere addirittura atti contrari ai propri interessi.
La fattispecie in esame è stata oggetto di numerose sentenze di merito dei primi anni duemila che hanno individuato nello straining la causa di un danno esistenziale specifico, dato dal peggioramento e decadimento della qualità di vita del lavoratore, cui possono eventualmente aggiungersi un danno biologico e un danno professionale.
La suprema Corte è stata adita da una lavoratrice dopo che la Corte d’appello aveva respinto la sua domanda di risarcimento per comportamenti mobbizzanti, argomentando che nella condotta del datore di lavoro non si potesse ravvisare una strategia persecutoria e che la sindrome depressiva della ricorrente fosse una sua particolare risposta rispetto alle normali decisioni organizzative.
In Cassazione la lavoratrice ha sostenuto la violazione dell’articolo 2087 del codice civile, rilevando che la mera legittimità della condotta dell'azienda, sostenuta dalla Corte di appello e peraltro contestata, non esimeva il datore di lavoro da responsabilità per non essersi attivato per evitare comunque il danno.
Il collegio, continua la ricorrente, non avrebbe poi valutato che la colpa dell’amministrazione potesse sussistere anche in assenza di intento vessatorio.
Nel respingere la domanda, la Corte di cassazione afferma che lo straining si verifica quando i comportamenti forieri di stress siano scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o se le stesse siano limitate nel numero.
La responsabilità è invece esclusa se i pregiudizi derivino dalla qualità inevitabilmente usurante della prestazione lavorativa che si traduce in meri disagi privi di consistenza e gravità, percepiti come tali dalla lavoratrice per una sua particolare risposta soggettiva che, in quanto tale, non fa sorgere un diritto risarcitorio.
Le condizioni normalmente usuranti dal punto di vista psichico, conclude la Corte, dovute alla ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico che rientrano in un concetto di “normalità”, non sono in sé ragione di responsabilità dell'azienda se non si ravvisano gli estremi della colpa.
Ai sensi dell'individuazione delle modalità semplificate per l'informativa e l'acquisizione del consenso per l'uso dei dati personali - Regolamento (UE) n.2016/679 (GDPR)
Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti legati alla presenza dei "social plugin".