Nell’anno 2012 Beta assume un apprendista con l’obiettivo d formare il ragazzo in vista della sua qualificazione e dell’eventuale stabilizzazione del rapporto. Tuttavia nel corso dello svolgimento della formazione le parti, non del tutto convinte circa la prosecuzione del rapporto, s’interrogano sull’eventuale possibilità di risoluzione dello stesso e si rivolgono ai rispettivi consulenti di fiducia. Quali conseguenze sono ipotizzabili?
Premessa
Dopo aver focalizzato l’attenzione sulla disciplina riguardante le modalità di esercizio del recesso dal contratto di apprendistato all’esito del periodo di formazione, si può passare l’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 1, lett. l), del il D.lgs. n. 167/11 (di seguito per brevità T.U.), che, in sintonia con la natura indeterminata del contratto di apprendistato e in correlazione al principio esposto nella pregressa sessione, contempla il divieto per le parti di recedere dall’apprendistato durante la formazione, salvo che ricorra una giusta causa o un giustificato motivo di recesso. Prima di scendere nel merito, occorre rilevare che l’addotta motivazione per la cessazione del rapporto di lavoro ha effetti diretti sulla possibilità per l’impresa di concludere in prospettiva nuovi contratti di apprendistato. E invero la L. n. 92/12 ha aggiunto all’art. 2 del T.U. il comma 3 bis, il quale dispone, ove la cessazione dell’apprendistato si sia verificata “durante il periodo di prova” o per fatti che integrino “dimissioni o licenziamento per giusta causa”, che il rapporto così estinto venga detratto dal computo della soglia percentuale di trasformazione dei contratti di apprendistato. Il successivo comma 3 ter, anch’esso introdotto dalla L. n. 92 cit., ha sottratto dal campo di applicazione delle condizioni normative summenzionate “i datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze un numero di lavoratori inferiore a dieci unità”.
Termine di preavviso ed estinzione del contratto di apprendistato
L’art. 2, comma 1, lett. i), del T.U. sancisce il “divieto per le parti di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. In caso di licenziamento privo di giustificazione trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente”.
Preliminarmente si rileva che il divieto di recesso opera per entrambe le parti del rapporto di lavoro e non solo nei confronti del datore di lavoro. Secondo una parte della dottrina “in sede di stesura dell’accordo collettivo le parti possano limitare tale obbligo […] al solo datore di lavoro”. Ciò sul presupposto che tale divieto sarebbe “troppo ‘limitante’ nei confronti dell’apprendista e, in ogni caso, più ‘comprimente’ rispetto ad un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel quale un lavoratore può recedere dal rapporto nel solo rispetto dell’art. 2118 c.c., anche pagando l’indennità sostitutiva”.
Per quanto la motivazione addotta possa considerarsi plausibile il presupposto da cui muove è errato.
Mentre l’art. 2 comma 1 lett. h) del T.U. si esprime in termini di possibilità di proroga del rapporto e quindi il portato facoltizzante della norma lascerebbe un congruo margine per sostenerne la natura derogabile da parte della contrattazione collettiva, di contro l’incipit dell’art. 2 comma 1 lett. i) del T.U. adopera, in forma imperativa, la locuzione “divieto”. Sicché, non appare ragionevole asserire la cedevolezza della norma rispetto alla regolamentazione pattizia. In sostanza, a giudizio degli scriventi, il diritto di recesso nel corso del periodo di formazione non è esercitabile se non in presenza di giusta causa o giustificato motivo. E tale divieto non è in alcun modo derogabile dalla contrattazione collettiva. Semmai quest’ultima potrà intervenire proprio sulle ragioni del recesso, ampliandone o restringendone la portata applicativa. D’altro canto se si ammettesse che la contrattazione collettiva possa derogare al divieto di recesso in corso di formazione verrebbe simmetricamente neutralizzato il portato della disposizione di cui all’art. 2 comma 1 lett. m) del T.U., che consente alle parti, e quindi anche all’apprendista, di recedere dal rapporto solo al termine del programma formativo e nel rispetto del periodo di preavviso.
Giusta causa, giustificato motivo oggettivo e soggettivo
In ordine alle motivazioni del recesso si può affermare che il concetto di “giusta causa” è ascrivibile a entrambe le parti del rapporto di lavoro. Diversamente il “giustificato motivo” può essere addotto, come causa di recesso, dal solo datore di lavoro. Il contenuto di tali istituti non è stato modificato né dal T.U. né dalla L. n. 92 cit., la quale invero ha inciso in maniera profonda e significativa sulle conseguenze del recesso ingiustificato esercitato dal datore di lavoro.
Procedendo con ordine, la giusta causa si sostanzia in un comportamento che inficia irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e non permette la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro.
Il “giustificato motivo” si articola in soggettivo e oggettivo.
Il primo viene in rilevo quando l’inadempienza contrattuale ascritta al lavoratore non appare connotata da gravità tali da legittimare il recesso in tronco dal rapporto, ma risulti comunque lesiva del legame fiduciario al punto da determinare la risoluzione con preavviso del rapporto. In sostanza, il comune denominatore tra giusta causa e giustificato motivo è costituito da un inadempimento agli obblighi contrattuali; la distinzione invece corre sulla riferibilità soggettiva del criterio risolutorio, sul piano quantitativo della violazione e sulla possibilità o meno di proseguire provvisoriamente il rapporto di lavoro.
Diversa invece è l’ipotesi del recesso per “giustificato motivo oggettivo” che involge unicamente la sfera datoriale ed è correlato all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro. Come rilevato da illustre autore, mentre la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo si basano su un fatto passato (la condotta infedele) il giustificato motivo oggettivo invece rappresenta la previsione di un fatto futuro suscettibile di alterare gravemente l’equilibrio economico su cui il rapporto di lavoro si fonda. Il giustificato motivo rappresenterebbe la perdita che il datore di lavoro paventa come conseguenza della prosecuzione del rapporto di lavoro. Da qui la sua difficile compatibilità con il principio dell’insindacabilità giudiziaria delle scelte organizzative aziendali. Tradizionalmente la giurisprudenza è ferma nel ritenere che il controllo del giudice debba essere limitato a valutare l’effettività della scelta organizzativa e il nesso causale tra questa e l’atto di recesso, essendo escluso ogni sindacato sul merito di tale scelta. Ma, secondo gli scriventi, tale descrizione delimitativa del sindacato giurisdizionale sconta difficoltà applicative, poiché la valutazione sulla legittimità di una scelta prognostica, che peraltro mal si presta ad essere dimostrata mediante documenti, testimoni o confessione, comporta anche determinazioni di puro merito aziendale, appannaggio esclusivo dell’imprenditore.
Venendo ora all’applicazione di tali concetti di teoria generali all’apprendistato si osserva quanto segue.
Dimissioni dell’apprendista con o senza giusta causa
Per quanto riguarda l’apprendista, quest’ultimo può recedere in corso di rapporto e quindi dimettersi solo in presenza di giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. e ferma l’osservanza della procedura di cui all’art. 4 commi 14 e ss. della L. n. 92 cit.. In tale caso al lavoratore spetta l’indennità sostitutiva del preavviso. Premesso che le dimissioni per giusta causa non sono equiparabili al licenziamento illegittimo, la giurisprudenza ha individuato le seguenti ipotesi di dimissioni per giusta causa:
mancato o ritardato pagamento della retribuzione;
omesso versamento dei contributi previdenziali;
condotta lesiva o ingiuriosa posta in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico;
pretesa del datore di lavoro di prestazioni illecite del dipendente;
molestie sessuali perpetrate in danno al dipendente;
Ove non ricorra una giusta causa di recesso, la condotta dell’apprendista si pone in contrasto con il precetto di cui all’art. 2 comma 1 lett. i) del T.U. la cui violazione pertanto può essere fonte di responsabilità per danni, i quali possono essere quantificati in ragione dell’importo dovuto a titolo d’indennità sostituiva del periodo di preavviso oppure in via equitativa sulla base dell’investimento effettuato dal datore di lavoro nella formazione del giovane. Un intervento della contrattazione collettiva appare auspicabile, ma non per escludere la responsabilità dell’apprendista, bensì per parametrare il quantum del risarcimento, introducendo così una clausola penale ex art. 1382 c.c. avente la funzione di precostituire pattiziamente il danno lamentato.
Conseguenze per licenziamento illegittimo dell’apprendista: cenni
Per quanto riguarda invece il recesso della parte datoriale, non è questa la sede per illustrare, anche in via esemplificativa, le molteplici ipotesi suscettibili di integrare il licenziamento per giusta causa, ovvero per giustificato motivo soggettivo od oggettivo. Preme invece osservare che l’art. 2 comma 1 lett. l del T.U. per l’ipotesi di licenziamento illegittimo richiama l’applicazione delle sanzioni previste dalla normativa vigente, da intendersi così come novellata dalla L. n. 92 cit..
Stante la complessità della materia, in via del tutto generale e di estrema sintesi, si può osservare che la c.d. riforma Fornero ha praticamente riscritto l’art. 18 della L. n. 300/70.
Tuttavia la riforma non interviene sui criteri dimensionali che determinano il sistema delle tutele applicabili. Con la conseguenza che per i contesti produttivi di piccole o di modeste dimensioni e per le organizzazioni di tendenza continua a trovare applicazione la tutela prevista dall’art. 8 della L. n. 604/66, che in presenza di licenziamento illegittimo, lascia al datore di lavoro l’alternativa tra reintegrazione e corresponsione dell’indennità risarcitoria.
Né sotto altro aspetto la riforma interviene sul regime normativo previsto per le ipotesi di licenziamento discriminatorio o comunque nullo i cui presupposti applicativi prescindono dagli ambiti dimensionali produttivi.
La L. n. 92 cit. invece interviene sul regime di tutela posto dall’art. 18 St. lav. ai datori di lavoro che raggiungano le soglie dimensionali individuate dalla norma e in tale senso sostituisce all’unitaria tutela reintegratoria una pluralità di regimi di tutela, reintegratori e/o risarcitori.
Al riguardo in dottrina è stata suggerita la seguente distinzione:
1) La “tutela reintegratoria piena” di cui all’art. 18, commi 1, 2 e 3 nuovo testo.
Tale tutela viene accordata in ipotesi di licenziamento illegittimo perché:
discriminatorio o comunque illecito e/o nullo;
In tali eventualità la tutela consiste:
nella reintegrazione nel posto di lavoro;
nel pagamento di un’indennità, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegrazione, al di sopra della soglia minima delle 5 mensilità dedotto unicamente quanto dal lavoratore effettivamente percepito nello stesso periodo per lo svolgimento di altre attività lavorative;
nel versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
2) La “tutela reintegratoria attenuata” di cui all’art. 18 comma 4 nuovo testo.
Tale tutela viene accordata in ipotesi di licenziamento illegittimo perché:
privo di “giusta causa” o “giustificato motivo soggettivo per “insussistenza del fatto contestato”;
privo di “giusta causa” o “giustificato motivo soggettivo” in quanto“il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
In tali eventualità la tutela consiste:
nella reintegrazione nel posto di lavoro;
nel pagamento di un’indennità risarcitoria “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione” con un tetto massimo di 12 mensilità e senza fissazione di una soglia minima; dall’”indennità risarcitoria” deve essere dedotto non solo quanto dal lavoratore effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, ma anche quanto egli “avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”;
nel pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
3) La “tutela indennitaria forte” di cui all’art. 18 comma 5 nuovo testo.
Tale tutela viene accordata in ipotesi di licenziamento illegittimo perché:
privo di “giusta causa” o “giustificato motivo soggettivo” per presupposti diversi da quelle che fondano l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata.
In tali eventualità le conseguenze consistono:
nella risoluzione del rapporto di lavoro a decorrere dalla data del licenziamento;
nel pagamento di una “indennità risarcitoria onnicomprensiva” fra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di retribuzione, tenendo conto di alcuni parametri previsti dalla legge ed in parte differenti a seconda dei presupposti applicativi della tutela.
4) La “tutela indennitaria dimidiata” di cui all’art. 18 comma 6 nuovo testo.
Tale tutela viene accordata in ipotesi di licenziamento illegittimo perché:
viziato sotto il profilo procedurale.
In tali eventualità le conseguenze consistono:
nella risoluzione del rapporto di lavoro;
nel pagamento di una “indennità risarcitoria onnicomprensiva” fra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità di retribuzione, da determinare sulla base di parametri posti dalla legge
Le forme di tutela previste per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Discorso a parte merita invece il licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”.
Invero l’art. 18 comma 7 nuova stesura prevede l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata laddove venga accertata l’illegittimità della giustificazione addotta a base del recesso intimato per inidoneità fisica o psichica del lavoratore. Invece nelle altre ipotesi in cui venga appurato che il fatto addotto a base del licenziamento sia insussistente, il giudicante potrà comunque optare per la tutela obbligatoria. Ne segue che in tale modalità di recesso la tutela reale rappresenta una extrema ratio. Ciò si pone in linea con l’esigenza di limitare se non proprio arginare forme di sindacato giudiziale su scelte datoriali che attengono prevalentemente a politiche aziendali.
L’excursus sopra esposto applicabile consente di dare una risposta al caso che occupa.
Il caso concreto
Nell’anno 2012 Beta ha assunto un apprendista con l’obiettivo d formare il ragazzo in vista della sua qualificazione e dell’eventuale stabilizzazione del rapporto. Tuttavia nel corso dello svolgimento della formazione le parti, non del tutto convinte circa la prosecuzione del rapporto, si sono interrogate sull’eventuale possibilità di risoluzione dello stesso e si sono rivolte ai rispettivi consulenti di fiducia. Alla luce di quanto sopra esposto e del divieto posto dall’art. 2 comma 1 lett. i) del T.U. pare plausibile ritenere che ove l’apprendista rassegni le proprie dimissioni carenti di giusta causa e queste superino il vaglio della convalida di cui all’art. 4 comma 17 e ss. della L. n. 92 cit., il datore di lavoro ha facoltà di promuovere azione risarcitoria per mancato conseguimento degli investimenti formativi. Il danno potrà essere quantificato nell’indennità di cui all’art. 2118 c.c. ovvero in via equitativa. D’altro canto se l’atto di recesso viene intimato dal datore di lavoro in carenza d’idonea giustificazione, attesa altresì la qualificazione dell’apprendistato come contratto a tempo indeterminato, l’impresa si espone all’azione d’impugnativa del licenziamento da parte dell’apprendista. In tale caso il regime normativo applicabile sarà alternativamente quello dall’art. 8 della L. n. 604 cit. se l’impresa ha ambiti dimensionali modesti, ovvero quello dell’art. 18 della L. n. 300 cit. come novellato dalla L. n. 92 cit. con le conseguenti forme di tutela articolate in base al contenuto dell’illegittimità richiamata nell’atto di recesso.
NOTE
ii P. Ichino “La Riforma Dei Licenziamenti E I Diritti Fondamentali Dei Lavoratori” - relazione al Convegno del Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” – Pescara 11 maggio 2012 in http://archivio.pietroichino.it/saggi/view.asp?IDArticle=966.
iii Generalmente le ipotesi più ricorrenti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono rappresentate dal bilancio aziendale in rosso, dalla riduzione della domanda espressa dal mercato, dalla possibilità di sostituire il lavoratore con una macchina meno costosa, dalla soppressione del singolo posto di lavoro.
iv Recentemente la S.C. è nuovamente intervenuta in materia statuendo che “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si verifica ogni volta che si presenta la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro a causa di scelte attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa con conseguente e inevitabile licenziamento dei lavoratori che ricoprano detti posti e che non possano essere impiegati altrimenti. Rientra, pertanto, nella previsione di cui alla seconda parte dell’art.3 della legge 15 luglio 1966 n. 604 l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, senza che sia rilevante la modestia del risparmio in rapporto al bilancio aziendale, in quanto, una volta accertata l’effettiva necessità della contrazione dei costi, in un determinato settore di lavoro, ogni risparmio che sia in esso attuabile si rivela in diretta connessione con tale necessità e quindi da questa oggettivamente giustificata” cfr. Cass. Civ. 24 febbraio 2012 n. 2874. La massima è ricca di aggettivi e di concetti valutativi che dimostrano la soggettività che sottende il giudizio sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
v Cfr. Cass. Civ. n. 648/1988; Cass. Civ. n. 9589/87; Cass. Civ. n. 5146/98.
vi Cfr. Cass. Civ. n. 2956/80.
vii Cfr. Cass. Civ. n. 5977/85.
viii Cfr. Pret. Legnano 10 marzo 1989.
ix Cfr. Trib. Milano 16 giugno 1999.
x Trattasi in particolare di licenziamento intimato per ragioni discriminatorie, ovvero in via contigua al matrimonio, nel periodo di interdizione per maternità, per motivo illecito determinante, oppure in forma orale.
xi Cfr. M.T. Carinci “Il rapporto di lavoro al tempo della crisi”in http://www.aidlass.it/documenti-1/relazione-prof.ssa-maria-teresa-carinci-alle-giornate-di-studio-di-pisa.
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