Potere disciplinare: difese e limiti
Pubblicato il 30 aprile 2015
Connotazione tipica del lavoro subordinato è il
riconoscimento normativo in capo al datore di lavoro del diritto di esercitare un potere disciplinare, di natura sanzionatoria, a fronte di comportamenti che costituiscano inosservanza degli obblighi contrattuali.
La
sanzione disciplinare rappresenta l’ultimo atto del procedimento disciplinare, i cui termini e le relative fasi sono sanciti principalmente dall’
art. 7 della L. n. 300/70 e dalle previsioni contrattuali.
L’art. 7 della L. n. 300 cit. si applica a tutti i datori di lavoro pubblici e privati,
indipendentemente dalle dimensioni aziendali.
Sinteticamente, il datore di lavoro deve contestare il fatto al lavoratore e invitare quest’ultimo a rendere le proprie giustificazioni nel
termine di cinque giorni.
Le garanzie procedimentali della previa contestazione dell’addebito rispondono all’esigenza di consentire al lavoratore, nel rispetto del
principio del contraddittorio, l’esercizio del diritto di difesa.
Sulla base delle controdeduzioni fornite dal lavoratore, il datore di lavoro deve decidere se accogliere le difese proposte e archiviare il procedimento ovvero respingerle in tutto o in parte e applicare conseguentemente la relativa sanzione.
Il mancato esperimento di tale procedura costituisce un vizio insanabile, che comporta l’invalidità della sanzione applicata.
In sintesi l’intera procedura disciplinare si articola nelle seguenti fasi:
1. contestazione di addebito da parte del datore di lavoro;
2. formulazione delle giustificazioni del lavoratore;
3. archiviazione del procedimento o applicazione della sanzione disciplinare;
4. impugnazione giudiziale o arbitrale della sanzione.
Il rispetto delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 della L. n. 300 cit. ha per corollario l’osservanza dei
principi di preventività, tempestività, specificità, immodificabilità della contestazione alla quale deve eventualmente seguire una sanzione comunque proporzionata rispetto all’addebito mosso al lavoratore.
Proprio perché le garanzie di cui all’art. 7 della L. n. 300 cit. sono funzionali a garantire l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore, si ritiene che il datore di lavoro non possa utilizzare le difese svolte da costui (per contraddire all’accusa mossa), per avviare un nuovo procedimento disciplinare.
Sul piano del rispetto delle garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa, tale
modus procedendi è altamente deprecabile, perché lede inesorabilmente il diritto di difesa e al tempo stesso frustra i canoni della correttezza e della buona fede contrattuale.
Infatti
il diritto di difesa spiega la propria forza espansiva anche nei procedimenti disciplinari, nell’ambito dei quali si impone l’osservanza, al più alto grado, del principio del contraddittorio (cfr. su tutte Cass. Civ. SS.UU. n. 7880/07). Mediante tali garanzie deve essere consentito al lavoratore di poter addurre, nel rispetto della continenza, ogni ragione utile a fondare il proprio convincimento e a giustificare la propria posizione rispetto alle contestazioni mosse (Corte di giustizia CEE, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal). E ciò, a maggior ragione, laddove le censure incidano su un diritto fondamentale della persona, qual è la conservazione del posto di lavoro.
La sostanziale violazione di dette garanzie genera nullità della sanzione applicata perché si traduce nella non valutabilità delle condotte causative del recesso (Cass., sez. lav., 16 maggio 2008, n. 12403).
La giurisprudenza di legittimità ha infatti stabilito che nel procedimento disciplinare opera la regola del
“nemo tenetur edere contra se” (nessuno è tenuto ad accusare se stesso), la quale
esclude il dovere dell’incolpato di rendere dichiarazioni idonee a fornire la prova della sua responsabilità, e quindi l’esigibilità di dichiarazioni autoindizianti (per l’affermazione di tale regola generale nei procedimenti sanzionatori, Cass. Civ., Sez. III 18 giugno 2004 n. 11412). Se ciò è vero allora ne discende per conseguenza che,
salvo che le controdeduzioni contengano epiteti offensivi e ingiuriosi, la falsità di quanto in esse affermato non può assumere di per sé rilevanza disciplinare (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 04/05/2005, n. 9262).
L’utilizzabilità delle difese dispiegate dal lavoratore per fondare una nuova contestazione di addebito ed avviare quindi un ulteriore ed autonomo procedimento disciplinare costituisce metodologia che solo formalmente può ritenersi rispettosa dello schema del corretto esercizio del potere datoriale, perché priva il lavoratore della garanzia di esporre liberamente, nel quadro di un’obiettiva e serena dialettica procedimentale, la propria versione dei fatti. Le regole del contraddittorio, in tal modo, vengono artatamente strumentalizzate dal datore di lavoro, per conseguire risultati pregiudizialmente elusivi ed esiziali rispetto all’interesse del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare.