In tema di licenziamenti collettivi, con la sentenza n. 24755, depositata l’8 ottobre 2018, la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) ha statuito che l’adozione del criterio della maggiore vicinanza alla pensione è coerente con la finalità di ridurre al minimo l’“impatto sociale” derivante dal licenziamento e che risulta legittimo estendere la scelta dei lavoratori da licenziare all’intera platea aziendale, in luogo della sola area nella quale sia stata accertata una situazione di eccedenza.
Si tratta di una pronuncia rilevante in materia di riduzione collettiva del personale, alla luce dei contrasti giurisprudenziali in merito alla scelta, squisitamente aziendale, dei criteri per individuare i lavoratori da licenziare nonchè, in particolare, del criterio qui esaminato della maggiore vicinanza alla pensione.
Come anticipato, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24755/2018, ha annullato, con rinvio, una decisione di secondo grado con cui era stata dichiarata la nullità del licenziamento intimato da una società per azioni ad un lavoratore, nell’ambito di una riduzione collettiva di personale.
In dettaglio, nel precedente grado di giudizio, la Corte d’Appello aveva ritenuto fondata la censura sollevata dal dipendente circa la legittimità dei criteri di scelta dei licenziandi, posto che, a fronte di una accertata situazione di eccedenza riferita ad una determinata area dell’azienda, era stato invece adottato il criterio dell’accesso alla pensione, al fine di espellere quei lavoratori che, vicini al pensionamento, avrebbero potuto optare per la mobilità volontaria.
Ad ogni modo, se per la Corte d’appello il licenziamento era da ritenersi illegittimo per “accertata incoerenza tra la crisi dell’azienda, gli esuberi accertati e i lavoratori licenziati”, secondo la Cassazione, invece, i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità, operando senza discriminazioni tra i dipendenti, cercando di ridurre al minimo il cosiddetto “impatto sociale” e scegliendo, nei limiti in cui ciò sia permesso dalle esigenze oggettive a fondamento della riduzione del personale, di espellere i lavoratori che, per vari motivi, anche personali, subiscono ragionevolmente un danno comparativamente minore.
Di conseguenza, nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, adottare il criterio della maggiore vicinanza alla pensione risulta coerente con la finalità di “minor impatto sociale” perché “astrattamente oggettivo e in concreto valutabile”, quindi rispondente alle necessarie caratteristiche di obiettività e razionalità richiamate.
Analizzando la giurisprudenza sul criterio d’accesso alla pensione nella scelta dei lavoratori da licenziare in caso di riduzione collettiva di personale, si può notare che le sentenze della Cassazione si posizionano prevalentemente a favore dell’adozione di tale criterio, mentre l’orientamento giurisprudenziale che ne contesta l’adozione si rileva maggiormente in primo e secondo grado di giudizio.
Di seguito, ex multis, alcune pronunce attestanti tali orientamenti.
ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE A FAVORE |
Tuttavia, ove quello della vicinanza al pensionamento sia l'unico criterio prescelto e lo stesso, applicato alla realtà, si riveli insufficiente ad individuare i dipendenti da licenziare, esso diviene automaticamente illegittimo se non combinato con un altro criterio di selezione interna. |
ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE CONTRARIO |
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Per licenziamento collettivo si intende un licenziamento che coinvolge contestualmente una pluralità di lavoratori e che comporta una soppressione dei posti di lavoro conseguente a riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro.
L’istituto è regolamentato dalla legge 23 luglio 1991, n. 223 (G.U. n. 175 del 27 luglio 1991).
Tale normativa è focalizzata sui licenziamenti collettivi, che non vanno confusi con i licenziamenti individuali plurimi, vale a dire licenziamenti individuali rivolti a più persone nell'ambito dell'azienda.
In dettaglio, la disciplina dei licenziamenti collettivi si applica alle imprese con più di 15 lavoratori che intendono effettuare dei licenziamenti in presenza dei seguenti requisiti, i quali devono essere tutti contemporaneamente verificati e presenti:
deve trattarsi di almeno 5 licenziamenti nel periodo di tempo di 120 giorni;
nell'ambito della stessa provincia;
nell'ambito della medesima causa di una riduzione, di una trasformazione o della cessazione dell'attività.
Un aspetto fondamentale della disciplina sui licenziamenti collettivi è che il datore di lavoro è tenuto a rispettare i criteri per individuare i lavoratori da licenziare, dettati dai contratti collettivi o, in mancanza, dalla stessa legge n. 223/1991.
Segnatamente, quest’ultima indica all’articolo 5, quali criteri, prioritariamente:
la presenza di carichi di famiglia;
l’anzianità di servizio;
da ultimo, le esigenze tecnico-produttive e organizzative dell’impresa.
Guardando agli aspetti formali, il licenziamento collettivo presuppone l’attuazione di una procedura che, come si vedrà, risulta alquanto complessa.
Come primo step, il datore di lavoro che vuole procedere al licenziamento collettivo deve comunicarlo preventivamente a tutte le associazioni sindacali o alle RSA, se presenti; alle associazioni di categoria, alla Direzione provinciale del Lavoro, alla Direzione regionale del Lavoro o al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a seconda della rilevanza del licenziamento (rispettivamente provinciale, regionale o nazionale).
In dettaglio, la comunicazione deve contenere:
la motivazione determinante l'eccedenza di personale;
i motivi tecnici, organizzativi e/o produttivi per i quali si ritiene di non poter evitare i licenziamenti;
il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e di quello normalmente occupato;
i tempi di attuazione della procedura.
A seguito della comunicazione, le rappresentanze sindacali e le associazioni di categoria, entro 7 giorni dalla ricezione della stessa, possono richiedere un esame congiunto riguardo ai motivi dell'esubero e lo studio di misure alternative al licenziamento collettivo.
Le misure alternative che devono essere esaminate, includono la possibilità di adibire i lavoratori nella stessa azienda a mansioni equivalenti o di livello inferiore presso la rispettiva sede, il trasferimento, l'esternalizzazione con eventuale clausola di salvaguardia ad altra società del gruppo, collegata o controllata e, da ultimo, non avente alcuna relazione di proprietà con l'azienda cedente.
In caso di esito negativo dell'esame congiunto, si attua una seconda consultazione su iniziativa della Direzione provinciale del lavoro, che esamina la questione insieme al datore di lavoro e alle rappresentanze sindacali.
Ad ogni modo, esaurita la fase delle consultazioni, con o senza accordo sindacale, il datore di lavoro può procedere al licenziamento dei lavoratori eccedenti.
Alla fine della procedura, se si perviene al licenziamento, questo deve essere intimato dal datore di lavoro con atto scritto e nel rispetto del termine di preavviso.
La comunicazione del datore di lavoro, contenente tutte le notizie attinenti al licenziamento, va trasmessa:
alla Direzione regionale del lavoro,
alla Commissione regionale,
ai sindacati di categoria.
Da ultimo, si segnala che al licenziamento può sostituirsi un verbale di accordo fra azienda e lavoratore, in cui si rinuncia ad ogni futura pretesa nei confronti della controparte, il lavoratore rassegna le proprie dimissioni e l'azienda si impegna a corrispondergli una congrua buonuscita.
NB! Contro i licenziamenti collettivi si può proporre impugnazione, nel termine di 60 giorni, a pena di decadenza, decorrenti dalla data di comunicazione del licenziamento. |
QUADRO NORMATIVO Legge n. 223 del 23 luglio 1991 Pretura di Milano - Sentenza del 22 marzo 1999 Corte di Appello di Milano - Sentenza del 23 febbraio 2001 Corte di Cassazione - Sentenza n. 12781 del 2 settembre 2003 Corte di Cassazione - Sentenza n. 19457 del 30 settembre 2015 Corte di Cassazione - Sentenza n. 24755 depositata l’8 ottobre 2018 |
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