Indennità per licenziamento illegittimo, la Consulta: spetta al Giudice determinarla

Pubblicato il 15 novembre 2018

Depositata l'8 novembre 2018, la sentenza della Corte Costituzionale del 26 settembre 2018, n. 194, ha dichiarato incostituzionale il criterio per determinare l’indennità di licenziamento prevista nel contratto a tutele crescenti, tipologia introdotta e regolamentata dal c.d. "Jobs Act".

Come si vedrà, per il giudice delle leggi non è illegittimo il quantum delle soglie minima e massima entro cui stabilire l’indennità per il lavoratore ingiustamente licenziato, quanto piuttosto il meccanismo di determinazione dell’indennità in questione, configurato dal decreto legislativo del 4 marzo 2015, n. 23 (G.U. n. 54 del 6 marzo 2018), che risulta essere rigido e non rispettoso dei principi di eguaglianza e ragionevolezza sanciti dalla Costituzione.

Analizziamo, allora, la sentenza della Corte Costituzionale, volendo poi focalizzare l’attenzione sulle tutele previste in caso di licenziamento illegittimo e, nello specifico, sulla indennità di licenziamento.

Indennità per licenziamento illegittimo. La sentenza della Consulta: questioni presentate

Nella sentenza n. 194 del 2018, decisa lo scorso 26 settembre, il giudizio di legittimità costituzionale verteva sulle seguenti norme:

Il giudizio era stato promosso dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, nel corso di un procedimento in via incidentale: in dettaglio, il giudice a quo, aveva sottolineato che le disposizioni denunciate contrastano con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, per le motivazioni che saranno di seguito esplicitate.

Innanzitutto, il Tribunale lamentava una violazione del principio di eguaglianza perché le disposizioni in tema di licenziamenti illegittimi tutelano i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 (quindi, dopo l’entrata in vigore del “contratto a tutele crescenti”) in modo ingiustificatamente peggiorativo rispetto ai lavoratori entrati in servizio prima di tale data.

In dettaglio, le disposizioni censurate, secondo il Tribunale, violerebbero il principio di eguaglianza poichè il carattere “fisso e crescente solo in base all'anzianità di servizio” dell'indennità da esse prevista, comporta anche che situazioni molto dissimili nella sostanza vengano tutelate in modo ingiustificatamente identico.

Sempre più nello specifico, nell’ottica del giudice di primo grado, le disposizioni denunciate non rispettano:

Il c.d. “Decreto Dignità” sotto la lente della Corte Costituzionale

Nel proporre ricorso alla Corte Costituzionale, il Tribunale ha poi concentrato la propria attenzione sul decreto legge del 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. “Decreto Dignità”, G.U. n. 161 del 13 luglio 2018), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, (G.U. n. 186 dell’11 agosto 2018) al fine di specificare al meglio le relative doglianze.

Quel decreto è stato chiamato in causa poichè ha modificato una delle disposizioni oggetto del giudizio, vale a dire l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui stabilisce il limite minimo e il limite massimo entro cui è possibile determinare l'indennità da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato, innalzandole, rispettivamente, da quattro a sei mensilità (limite minimo) e da ventiquattro a trentasei mensilità (limite massimo) dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).

In particolare, con riferimento a quanto sopra, secondo il Tribunale non è il quantum delle soglie minime di indennità ad essere considerato illegittimo, quanto il meccanismo di determinazione dell'indennità stessa, configurato dalla norma censurata.

Per il giudice a quo la norma in esame introduce, infatti, un criterio rigido e automatico, basato esclusivamente sull'anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice, in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.

Indennità spettante, la Consulta circoscrive il giudizio ad un solo articolo ma amplia i criteri per la quantificazione

Guardando al testo della sentenza, in definitiva, di tutte le questioni presentate, il giudizio di legittimità costituzionale è risultato circoscritto al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, che è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio».

La Consulta ha sostanzialmente sancito che, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice chiamato a pronunciarsi sulla legittimità o meno del licenziamento, è tenuto a quantificare l’importo della eventuale indennità spettante al lavoratore,tenendo conto innanzitutto dell'anzianità di servizio, ma anche degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

Tutela contro i licenziamenti illegittimi post “Jobs Act”. Nuovo regime sanzionatorio

Al fine di comprendere le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale, è utile riepilogare il regime di tutele attualmente in vigore, che scatta in caso di licenziamento illegittimo.

In primo luogo, come sopra anticipato, il 7 marzo 2015 è entrato in vigore il d.lgs. n. 23/2015, disciplinante il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Il decreto in parola non introduce una nuova tipologia contrattuale, bensì un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato a sostituire la disciplina prevista dall’art. 18 della legge del 20 maggio 1970, n. 300, G.U. n. 131 del 27 maggio 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), per i soli lavoratori che verranno assunti a tempo indeterminato, come operai, impiegati e quadri, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.

Segnatamente, la nuova disciplina restringe le ipotesi di reintegra del lavoratore, individuando nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo.

Ed infatti, l’espressione “tutele crescenti” fa in particolare riferimento alle modalità di calcolo di detta indennità, il cui ammontare è parametrato all’anzianità di servizio maturata dal dipendente al momento del licenziamento.

In particolare, a seguito della riforma, il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nei soli casi di:

In buona sostanza, nelle ipotesi sopra elencate (licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore), il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore, anche al pagamento di un’ indennità a favore di quest’ultimo e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fuori delle suddette ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità economica.

Vediamo, dunque, in dettaglio, tutte le possibili forme di tutela contemplate dal nostro ordinamento.

 

Le conseguenze sanzionatorie per i licenziamenti illegittimi: un riepilogo

1) Tutela reale piena (o risarcimento pieno): per le ipotesi di licenziamento discriminatorio o nullo per espressa previsione di legge, ovvero orale e quindi senza forma scritta, è previsto il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, senza determinazione ex lege dei limiti massimi.

2) Tutela reale limitata (o a risarcimento limitato): nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, è previsto il diritto dello stesso alla reintegrazione e al risarcimento del danno in misura non superiore a 12 mensilità.

3) Tutela risarcitoria forte (o indennitaria forte): in ogni altro caso di licenziamento ingiustificato (diverso dall’ipotesi di cui sopra) è previsto il diritto del lavoratore al pagamento di una indennità (2 mensilità per ogni anno di servizio, in misura compresa tra 6 e 36 mensilità).

4) Tutela risarcitoria debole (o indennitaria debole): nei casi di licenziamento inefficace per vizi diversi dall’assenza di forma scritta, è previsto il diritto del lavoratore al pagamento di un’indennità di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.

5) Tutela risarcitoria dimezzata: nei casi di licenziamenti ingiustificati e inefficaci, è previsto il dimezzamento dell’importo delle indennità risarcitorie spettanti nelle ipotesi di applicazione della tutela risarcitoria forte e debole.

 

 

NB! La tutela n. 1 si applica indipendentemente dai limiti dimensionali del datore di lavoro.

Le tutele nn. 2, 3 e 4 trovano applicazione nel caso di datori di lavoro con limiti occupazionali medio-grandi.

La tutela n. 5 di applica alle imprese di piccole dimensioni.

 

 

 

QUADRO NORMATIVO

Legge n. 300 del 20 maggio 1970

Legge n. 183 del 10 dicembre 2014

Decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015

Decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018

Legge n. 96 del 9 agosto 2018

Corte Costituzionale - Sentenza n. 194 del 26 settembre 2018 (depositata l’8 novembre 2018)

Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982

Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (proclamata per la prima volta il 7 dicembre 2001 e una seconda volta il 12 dicembre 2007)

Carta sociale europea (adottata nel 1961, rivista nel 1996 ed entrata in vigore nel 1999)

 

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