Equo compenso, commercialisti in cerca di parametri congrui

Pubblicato il 12 ottobre 2017

Sull'Equo compenso dei professionisti ancora un intervento. Gli interessati - le sigle sindacali ADC, AIDC, ANC, ANDOC, UNAGRACO, UNGDCEC, UNICO, ovvero il coordinamento sindacale dei commercialisti – pongono, in particolare, l'attenzione sulle proposte attualmente in dibattito nel Parlamento, specialmente sulla sentenza n. 4614/2017 del Consiglio di Stato, ove si dichiara legittimo il modus operandi del Comune di Catanzaro, che ha indetto un bando di gara nel quale le prestazioni dei professionisti non prevedevano un compenso.

Percepire un equo compenso senza dover ricorrere al giudice

La categoria riassume i redditi medi dei professionisti nell'odierno contesto economico per sollecitare norme che li aiutino ad ottenere un compenso, senza costringerli ad intraprendere un lungo e costoso iter giudiziario nel quale potrebbero soccombere.

Cercano una soluzione legislativa che dia loro il diritto ad un giusto compenso, con ciò “riconoscendo la dignità del lavoro intellettuale, ripristinando un principio costituzionale...” che deriva dall'articolo 36 della nostra Carta Fondamentale e che prevede il diritto, per ogni lavoratore (anche autonomo), ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro.

Professionisti: compenso equo, tasche vuote

In un comunicato stampa congiunto pubblicato l'11 ottobre, i commercialisti denunciano che “condizionare la corresponsione dell’equo compenso al contenzioso giudiziario in sede civile (… ) presenta vari problemi di ordine pratico (...)”.

Sarebbe a dire:

1. “avviare un’azione giudiziaria nei confronti di un committente pregiudica inevitabilmente il proseguimento del rapporto professionale e l’assegnazione di nuovi incarichi. Di conseguenza, soprattutto nei rapporti con la P. A. (...) il professionista verosimilmente non avrà mai la possibilità di far valere il proprio diritto all’equo compenso”;

2. “il costo dell’azione giudiziaria (contributo unificato, bolli, parcella dell’avvocato) è regressivo, ovvero diminuisce proporzionalmente all’aumentare del valore della causa. Se a questo si aggiunge che i tempi medi di durata del processo sono estremamente lunghi (...), l’avvio di una causa può diventare conveniente soltanto se si tratta di valori consistenti. È evidente, allora, che così non si tutela la parte più “debole” delle professioni, soprattutto giovani e donne”;

3. “infine, nel migliore dei casi, si rischia di inflazionare il contenzioso civile, rendendo i tempi del processo ancora più lunghi e generando nuovi costi per la pubblica amministrazione.”.

Sarebbe “giusto e corretto cercare dei parametri congrui per stabilire i corrispettivi inerenti le prestazioni dei professionisti e sarebbe auspicabile iniziare a rendere obbligatorio il riconoscimento di equo compenso partendo dai contratti con la Pubblica Amministrazione (e con enti e società partecipate) (...)”.

La prospettiva sarebbe intervenire ex ante: impedendo bandi, incarichi e affidamenti in deroga ai minimi stabiliti da parametri e tabelle di riferimento o addirittura gratuiti. In tal modo, si permetterebbe al professionista di percepire il suo equo compenso senza dover ricorrere al giudice.

A conclusione del comunicato leggiamo: “Un compenso proporzionato all’attività professionale svolta è doveroso da riconoscere ai liberi professionisti ed è necessario che tale diritto non rimanga soltanto un principio enunciato sulla carta, lasciando vuote le tasche dei professionisti.”.

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