“Per “mobbing” (…) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”. E’ il senso che i giudici di legittimità danno al concetto di mobbing nella pronuncia 3785, depositata in cancelleria il 17 febbraio di quest’anno.
La Corte – che precisa che sul lavoratore “infortunato” grava l’onere di provare il danno e la sua derivazione dall’ambiente di lavoro, mentre spetta al datore l’onere di provare di aver adottato tutte le misure che si rendevano necessarie per la tutela dell’integrità fisica del lavoratore stesso – precisa poi come ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore siano rilevanti questi elementi:
a) la molteplicità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
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