La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, interviene a chiarire la portata della contestazione per condotta antieconomica.
Non basta, spiega la Corte, l'esibizione di documenti poco chiari sulle rimanenze di magazzino a giustificare l'accertamento.
Alla condotta antieconomica serve l'appoggio di indizi gravi, precisi e concordanti che dimostrino l'inattendibilità della condotta.
Il caso di specie muove dalla richiesta dei verificatori delle Entrate, a seguito di una istanza di rimborso di un credito Iva da parte di una s.r.l. fallita, del dettaglio, per quantità e valore, delle rimanenze delle materie prime e delle merci. In risposta il curatore si limita a indicare il valore iniziale e quello finale del magazzino.
A motivo della necessità di presunzioni gravi precise e concordanti ai fini della pretesa – si legge nella sentenza n. 21869 del 28 ottobre 2016 - l'antieconomicità del comportamento imprenditoriale richiede all'Amministrazione finanziaria “la dimostrazione dell'inattendibilità della condotta; e tale inattendibilità va vista in chiave diacronica, con la precisazione che la stima della redditività dell'impresa, che costituisce oggetto della valutazione di antieconomicità, è di norma affidata alla comparazione di più indici, tra i quali spiccano quello che fa leva sul rapporto fra il reddito operativo ed il capitale complessivamente investito nell'impresa e quello che punta sul rapporto fra reddito operativo e ricavi dell'impresa, che, in particolare, evidenzia la percentuale del volume di affari”.
La Suprema corte, infine, si dice d'accordo con il giudice d'appello che ha escluso la decisività del dato dell'Ufficio atteso che la società è fallita proprio per la condotta antieconomica.
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