Vietato apporre “made in Italy” se la cucitura è effettuata all’estero
Pubblicato il 28 gennaio 2015
Non può essere apposta la stampigliatura
“made in Italy” in un paio di scarpe,
se anche solo una parte della lavorazione sia avvenuta all’estero.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, IV sezione penale, con sentenza n.
3789 depositata il 27 gennaio 2015, rigettando il ricorso di un'azienda che commercializzava scarpe recanti la dicitura
“made in Italy”.
Le stesse venivano infatti progettate e prodotte in Italia, fatta eccezione per l
’ultima parte della lavorazione, ovvero l’assemblaggio e cucitura dei pezzi, la quale veniva affidata ad altra società avente sede in Romania.
Ha affermato la Cassazione con la pronuncia in esame, come in tal caso debba considerarsi
vietata l’etichettatura “
made in Italy” nel prodotto in questione, in quanto
tale da indurre in errore circa l’effettiva origine, provenienza e qualità dello stesso.
L’acquirente, infatti, sarebbe in tal modo portato a ritenere che la scarpa sia stata interamente concepita e fabbricata in Italia.
Eppure la
fase di lavorazione compiuta all’estero - a detta della Cassazione –
non è un segmento del ciclo produttivo di trascurabile rilievo, poiché, trattandosi di cucitura ed assemblaggio, è volta a conferire robustezza e stabilità alla scarpa e pertanto, a garantirne la qualità quale requisito essenziale per il compratore.